MUSICA




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MUSICA
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Ella Fitzgerald, la timida signora del jazz che incanta ancora il mondo


di Giuseppe Videtti



Riservatissima, una famiglia disastrata, la voce cristallina della quale non sembrava essere cosciente. Il debutto a diciassette anni, venticinque milioni di dischi venduti e una serie di compositori a sua disposizione, da Gershwin a Porter, da Berlin a Ellington. Il ricordo, a vent'anni dalla morte


La voce. Se Frank Sinatra non se ne fosse appropriato, il titolo le spetterebbe di diritto: the voice. Non ci sono nel Novecento altre cantanti che abbiano avuto in dote un timbro del genere. A detta di tutti i musicisti che ne guidarono gli esordi, Ella Fitzgerald, la grande jazz singer morta a 79 anni il 15 giungo del 1996, non era neanche consapevole dell’abilità e del virtuosismo di cui era capace.

Duecentocinquanta incisioni, dagli anni Trenta agli anni Ottanta, venticinque milioni di album venduti, che nel jazz rappresentano un primato, quattordici Grammy Award, una popolarità che ha varcato le soglie del mercato occidentale, un culto da collezionisti internazionali, una manna per i compositori che hanno avuto il privilegio di essere “vittime” della sua insaziabile curiosità: non solo George e Ira Gershwin, Cole Porter, Rodgers and Hart, Irving Berlin, Duke Ellington, Harold Arlen, Jerome Kern e Johnny Mercer, ai quali dedicò i suoi indispensabili “songbook”, ma anche W.C. Handy, Kurt Weill, Burt Bacharach, Lennon & McCartney, Stevie Wonder, Antonio Carlos Jobim, solo per citare alcuni nomi che hanno avuto il privilegio di far parte della monumentale produzione di un’artista geniale e infaticabile al punto da non rinunciare a nessun territorio musicale, dal pop alla canzone d’autore, dal blues al gospel, dal rhythm&blues alla bossa nova – sempre in chiave jazz, ma ora col senno di poi squisitamente in chiave Ella.

Ella Fitzgerald nasce il 25 aprile 1918 a Newport News, in Virginia, in una famiglia poverissima. Conoscerà solamente la madre: il padre sparisce prima della sua nascita. Da piccola sogna di diventare ballerina ma il suo temperamento - la definiranno "goffa e incolta" - la porterà in un'altra direzione. A 17 anni, quando debutta come cantante all'Apollo Theater di Harlem spinta dagli amici, la sua strada è già chiara: come la sua voce, cristallina, delicatissima, perfetta e capace di abbracciare qualsiasi stile, grazie a una tecnica enorme: swing, bebop, blues, il dixieland e lo scat, lo stile canoro con il quale vengono accostate sillabe che danno il ritmo e trasformano la voce in uno strumento. Canterà brani scritti dai più grandi, da George e Ira Gershwin, Cole Porter, Rodgers and Hart, Irving Berlin, Harold Arlen, Jerome Kern e Johnny Mercer, e canterà accanto ad altrettanti colossi della musica, da Duke Ellington a Louis Armstrong. Malata fin da giovane di diabete, continuerà a esibirsi in pubblico fino al 1992. Muore il 15 giugno 1996 nella sua casa di Beverly Hills, in California, all'età di 78 anni.





La sua voce era inimitabile, le sgorgava dalla gola come acqua cristallina dalla sorgente, in maniera naturale, senza sforzo, senza prepotenza. Un dono di cui a volte sembrava inconsapevole. Quando da adolescente si presentò alla prima audizione fu vittima di un attacco di panico e rinunciò. "Sono nata per fare la ballerina", diceva a 17 anni, quando ormai da due anni viveva a Harlem, il ghetto nero di New York, dove si era trasferita con la zia dopo la morte della madre (Ella non aveva mai conosciuto suo padre). Eppure i critici che l’ascoltarono dal vivo agli esordi, quando si esibiva con l’orchestra di Chick Webb al Savoy Ballroom, giurano che aveva delle potenzialità sbalorditive. Dovette riconoscerlo anche il band leader che all’inizio era stato molto riluttante, definendola "goffa e incolta". Non aveva capito che Ella non si sarebbe mai adattata al ruolo di femme fatale, era già allora una ragazza di temperamento, insofferente alla ferrea disciplina che Webb imponeva alla sua orchestra (anzitutto il veto tassativo di flirtare con i colleghi – che Ella ignorò alla grande).
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La Fitzgerald non aveva il sex appeal di Peggy Lee, l’esuberanza di Dinah Washington, il tormento di Billie Holiday, la sua forza era nella purezza del tono, nella dizione impeccabile, nel fraseggio, nell’intonazione, nella straordinaria abilità d’improvvisare e, più avanti nella carriera (dal 1945 con Flying Home), in quello scat formidabile, inimitabile, inarrivabile che le permetteva di dialogare con l’orchestra senza parole – voce allo stato purissimo, il più sublime degli strumenti. Dunque nessuna meraviglia che il suo primo successo del 1938, A-Tisket, A-Tasket, fosse poco più o poco meno di una filastrocca; qualsiasi verbo rischiava di diventare inconiugabile pronunciato da una voce così ammaliante e funambolica, dunque a nessuno parve un problema che le 150 canzoni incise dalla Fitzgerald con Chick Webb (alla morte del maestro, nel 1939, fu proprio lei ad assumere la guida della band che diventò Ella and Her Famous Orchestra) fossero prive di contenuti letterari e ricercatezze linguistiche tanto erano straripanti di swing – sulla falsariga di (If You Can’t Sing It) You’ll Have to Swing It (Mr. Paganini) tanto per intenderci.

Ella non sarebbe volata così in alto e non avrebbe occupato l’Olimpo della storia del jazz se non avesse incontrato due dei più abili, sensibili e scaltri affaristi della scena jazz, il manager Milt Gabler e l’impresario Norman Granz. Il primo le agevolò il passaggio dal swing al be-bop affiancandola all’orchestra di Dizzy Gillespie ed esaltò il suo talento di scat singer nelle incisioni per la Decca; il secondo le garantì apparizioni sistematiche al prestigioso Jazz at the Philharmonic, fu lo spirito guida dei prestigiosi “songbook” incisi per la Verve e dei leggendari duetti con Louis Armstrong che rappresentano la punta di diamante della carriera dell’artista, ma soprattutto, liberale com’era, la tenne al riparo da qualsiasi discriminazione razziale evitandole i linciaggi morali cui furono sottoposti altri artisti di colore come Dorothy Dandridge, Billie Holiday, Eartha Kitt o Lena Horne. Alla metà degli anni Cinquanta la Fitzgerald era la grande diva del jazz, osannata a Hollywood (paparazzatissimo il suo incontro con Marilyn Monroe al Mocambo), nei jazz club e nei teatri d’opera americani, europei e giapponesi. Nelle mani di Granz diventò un tesoro inestimabile, e avrebbe avuto una carriera anche più longeva se i problemi di salute, causati dal diabete e dal superlavoro, non l’avessero costretta a diradare notevolmente l’attività già nei primi anni Ottanta, dopo le folgoranti apparizioni a Las Vegas e a Broadway con Sinatra e l’orchestra di Count Basie e le preziose collaborazioni con Roy Eldridge, Herb Ellis, Tommy Flanagan, Oscar Peterson e Antonio Carlos Jobim.

Trascorse gli ultimi anni, con le gambe amputate e gravi problemi alla vista, nella sua casa di Beverly Hills. Della sua vita privata si è sempre parlato pochissimo. Non amava rilasciare interviste, temeva sempre che la conversazione scivolasse sui particolari della sua infanzia, sulla mamma inadempiente e il padre assente, sul suo primo matrimonio (1941) subito annullato con Benny Kornegay, uno spacciatore che aveva avuto guai con la giustizia, del secondo (1947) con il contrabbassista Ray Brown, dal quale divorziò nel ’53, infine di quello segreto col norvegese Thor Einar Larsen di cui la Reuters diede notizia nel 1957 ma del quale non si sono mai avute conferme. Tutti quelli che hanno lavorato con lei sono concordi: Ella era una persona timidissima, riservata, persino in difficoltà durante le cerimonie di premiazione. Nata per cantare, come Mahalia Jackson. Quando le è mancata la voce ha smesso di vivere.