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Afterhours, un disco di "morte e rinascita"


Raggio di sole pallido sull'acqua del Naviglio, paesi che scompaiono veloci nel pomeriggio d'aprile, non c'è macchia per terra e in cielo, mentre la macchina sfreccia tra squarci di Padania, come si intitolava, non a caso, l'ultimo album degli Afterhours. Quattro anni fa. Una vita. E una morte. I capelli di Manuel Agnelli sono tornati lunghi, giacca a righe, jeans e camicia scuri, stivali neri come sempre. "Il nuovo disco uscirà il 10 giugno, un periodo inusuale per i riti della discografia, quando la primavera sta per trasformarsi in estate, un cambio di stagione che è perfetto a simboleggiare il cambio che è avvenuto negli Afterhours", spiega. "Eravamo marci. Neanche un anno fa sembrava tutto finito, per una settimana me ne sono andato dalla band", racconta mentre guida andando verso lo studio dove si trova il resto della band, con lo stesso stile con cui fa musica, spietato e tranquillo come chi sa dove andare anche dentro la tempesta. "Quello che pensavamo l'uno dell'altro non si poteva più scalfire e questo finiva inevitabilmente per ripercuotersi sulla musica. Attraverso molte sofferenze ci sono stati dei cambiamenti, due persone se ne sono andate (Giorgio Prette, il membro di più vecchia data dopo il fondatore Manuel, e il chitarrista da lungo tempo Giorgio Ciccarelli), due persone nuove sono entrate, Stefano Pilia, chitarrista dei Massimo Volume oggi impegnato in tournée mondiale con una delle regine della nuova musica africana, Rokia Traoré, e Fabio Rondanini, batterista-mostro che suona fisso con i Calibro 35 e fa il turnista per molti altri.
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Oggi gli Afterhours sono più un collettivo fatto di musicisti ciascuno con il proprio percorso che una band nel senso tradizionale del termine: "Non viviamo sotto lo stesso tetto, non andiamo a bere o a donne insieme, anzi in molti casi viviamo addirittura in città diverse, però lo spirito che ci anima è molto forte", dice Manuel. La macchina si infila in un ampio cortile, l'edificio è bianco, vende stufe elettriche, moto, incredibili biciclette a pedalata guidata realizzate artigianalmente con vecchi pezzi riadattati. Il resto della band si sta fumando una sigaretta o beve orzo alla macchina del caffè; l'effetto è surreale ma piacevole, racconta di una band talmente sicura di sé da non aver bisogno di stare nel posto cool. "Non ce ne frega davvero niente", spiegano, "l'unica cosa che ci interessa è che qui possiamo fare quello che vogliamo per tutto il tempo che vogliamo".

Attraversati i primi due vani si arriva in un stanza piena di scatoloni, poi allo studio vero e proprio e alla sala prove: "Si chiama 'Germi'", spiega Manuel, "come il nostro primo album in italiano. È un posto sporco e confortevole, che suona molto bene, qui abbiamo una strumentazione notevole e componiamo, proviamo, registriamo. Non abbiamo impedimenti, possiamo stare tranquilli e se vogliamo fare un assolo abbiamo tutto il tempo. Il bello è che, quando hai questa libertà, spesso trovi quello che cerchi in pochi minuti. Qui posso anche provare da solo delle cose che non avrei il coraggio di tentare davanti agli altri: magari nove le butti via e una invece funziona proprio bene come non ti saresti mai aspettato". Il disco nuovo, a un mese dalla pubblicazione, non è ancora pronto in tutte le sue rifiniture: "Come sempre sono arrivato alla fine del disco con alcuni pezzi mancanti: dico 'sono' perché è colpa mia, non riesco a fare le cose se non sotto pressione. Mancano due testi e quindi due cantati, più qualche ritocco". Il titolo, a prima vista, è strano, quasi giocoso: "Si intitola Folfiri o Folfox. Sono due trattamenti per la chemioterapia. È un album che parla di malattia ma che, incredibilmente, non è scuro e il titolo va in questa direzione. È stato il contrario rispetto a Padania: lì eravamo partiti dal titolo che ci ha dato una linea, mentre con Quello che non c'è il titolo è nato dopo il mastering, quando era tutto finito".

Manuel Agnelli ci ha accompagnati in tour dentro a 'Germi': il suo studio personale, lontano dalla città, dove è nato il nuovo disco (e molte delle canzoni degli Afterhours) in uscita il 10 giugno. Il titolo: 'Folfiri o Folfox'. Una copertina con una orchidea maculata su sfondo nero: morte e rinascita. Lo studio 'Germi' non un luogo con tutte le comodità, come quelli che a un certo punto scelgono le rockstar: si trova dentro a un edificio bianco che vende stufe elettriche, moto e biciclette artigianali a pedalata guidata. "Non ce ne frega davvero niente del posto 'cool', l'unica cosa che ci interessa è che qui possiamo fare quello che vogliamo per tutto il tempo che vogliamo", racconta la band. 'Germi', come il debutto in italiano degli Afterhours, uscito più di 30 anni fa, nel 1995. "È un posto sporco e confortevole, che suona molto bene, qui abbiamo una strumentazione notevole e componiamo, proviamo, registriamo. Non abbiamo impedimenti, possiamo stare tranquilli e se vogliamo fare un assolo abbiamo tutto il tempo. Il bello è che, quando hai questa libertà, spesso trovi quello che cerchi in pochi minuti. Qui posso anche provare da solo delle cose che non avrei il coraggio di tentare davanti agli altri: magari nove le butti via e una invece funziona proprio bene come non ti saresti mai aspettato", racconta Manuel.



Ma l'album in realtà ha delle linee guida molto chiare. "È un disco di morte e di rinascita. Perché in questi anni molti di noi hanno avuto dei lutti. Capita, man mano che procedi nella vita. Io ho perso mio padre. Ma è anche un disco di rinascita perché il dolore se non ti annienta ti fa trovare energie che non pensavi di avere. È anche un lavoro molto caldo dove Padania era volutamente ghiacciato, perché doveva raccontare il gelo che ci sentivamo attorno. Con questo invece abbiamo eliminato tante tossine, cose che ci facevano stare male. Musicalmente ognuno ci ha messo una parte così forte di sé che suona molto rotondo. È anche, in totale controtendenza di mercato, un disco doppio, di diciotto brani". Parte il pezzo che apre il nuovo album e ci si trova immediatamente spiazzati.

Una chitarra acustica, un cantato viscerale: "Avevamo un patto io e te ma poi ti si è spento dentro/ allora l'ho firmato da me/ da solo a sei anni giù in fondo da un sogno/ giurami che noi non moriremo mai", poi il brano si apre, diventa avvolgente. "Si intitola Grande, parla di un patto immaginario con mio padre per cui non saremmo mai morti: la realtà è diversa ma il brano finisce dicendo che 'in questo sogno qui non moriremo più e non moriremo mai'". Poi c'è Oggi, dove invece la realtà prende il sopravvento. Un inizio quasi languido, pinkfloydiano, poi una chitarra acustica, una voce profonda che dice: "E non c'è altro modo di decidere/ dalla finestra della tua stanza ci entra il sole/ davvero l'hai meritato/ che possa non andare più via". "Ognuno ha il suo modo di rapportarsi al dolore: ho cercato di raccontare le mie sensazioni senza essere didascalico né piagnone. Così come un altro pezzo che si intitola E ti cambia il sapore che parla di chemioterapia: uno degli effetti è quello dell'alterazione del gusto che qui però viene analizzata dal punto di vista psicologico: è un brano sull'assenza di Dio. Siamo adulti, crediamo che il rock lo sia a sua volta: non è più come agli esordi una cosa spensierata, da teenager, e crediamo che possa affrontare argomenti ritenuti tabù. Ho sempre pensato che il rock possa raccontare storie vere, che non sia solo divertimento".

Dopo il debutto con il mini-cd 'All the Good Children Go to Hell', nel 1990 esce l’album d’esordio degli Afterhours, 'During Christine’s Sleep'. Grazie all’influente rivista americana 'Alternative Press', che lo segnala come disco del mese, gli Afterhours vengono invitati a rappresentare l’Italia al New Music Seminar di New York. Nel 1991 esce il mini lp 'Cocaine Head'. Immediatamente dopo, il gruppo viene inoltre invitato al Berlin Indipendence Days. Nel 1993 gli Afterhours registrano 'Mio fratello è figlio unico' di Rino Gaetano per l’album tributo legato ad Arezzo Wave: è la prima traccia ufficiale cantata in italiano. Nel 1993 esce l’album 'Pop Kills Your Soul'. L’anno seguente gli Afterhours registrano una versione de 'La canzone popolare' per il tributo a Ivano Fossati.



Naturalmente ci sono anche ballate nel disco, di quelle che hanno reso gli Afterhours la band indipendente capace di fare il tutto esaurito in luoghi da migliaia di posti. Una di queste è il singolo che uscirà a fine maggio, Non voglio ricordare il tuo nome, che sarà però anticipato dalla pubblicazione di Il mio popolo si fa, un brano sporco, molto rock, che ristabilisce da subito il contatto con il pubblico più fedele della band. "È un pezzo sulla fine delle illusioni, delle speranze di cambiare il mondo che poteva ancora avere la mia generazione ma che non per questo è necessariamente docile. Io non sono disilluso e ho sempre pensato che ognuno sia artefice del proprio destino. Per questo ho sempre cercato di lottare contro la situazione di autoesilio della scena rock indipendente creando tour come il Tora! Tora!, usando Sanremo come un luogo per dire delle cose con il progetto Il paese è reale, un cd con diciotto artisti di grande qualità che non trovavano spazio nella programmazione di radio e tv e poi la serie di concerti di Hai paura del buio, legati anche alla mia presenza a una serie di tavoli per la creazione di nuove leggi sulla musica. Ho toccato con mano che la possibilità di cambiare le cose c'è, basta impegnarsi per farlo, e qualche cosa l'abbiamo cambiata in effetti. Ma so che si può fare molto di più. Ci ho speso soldi ed energie perché ci ho sempre creduto".

E adesso, come si fa a portare avanti ancora questa lotta? "Bisogna usare i mezzi che si hanno a disposizione. Lo scorso anno mi hanno proposto di fare il giudice a un talent e ho rifiutato. Ma ci sto ripensando: non ho paura di affrontare cose del genere se posso usarle per qualcosa di importante. Il peso mediatico, lo sappiamo, è forza e la televisione è ancora l'unica che ti può far fare quel salto. Non credo più nella riserva indiana del 'programma di qualità': se ne parla da troppi anni e non succede mai niente. L'alternativa non esiste più: è solo una parola vuota che definisce un genere musicale e non è neppure un genere musicale più libero degli altri. Oggi, anzi, è sempre più spesso vincolato a egoismi e a un'estetizzazione estenuata, è solo moda, non è neanche più un'attitudine. Bisogna andare dove c'è la gente ma naturalmente portando se stessi". Come ha fatto Morgan. "Morgan è uno pericoloso. Incontrollabile. E per me il rock oggi deve ancora essere questo. Essere 'pericoloso' non significa chissà che: vuol dire parlare di cose di cui gli altri non parlano con un linguaggio, una profondità, una schiettezza diversi". Le critiche per questo, in parte proprio arrivate dalla scena che hai cercato di supportare, quella indipendente che non crede nelle cause collettive e oggi è molto più individualista di un tempo, sono state tante. "Va benissimo. Io parlo per quelli che si riconoscono in un certo progetto: chi non si riconosce deve portare avanti il proprio. E, se ne ha la forza, ci deve spazzare via".