MUSICA




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​​​​​​​Parliamo dei nostri gusti musicali
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Capossela si fa folk, fra Matteo Salvatore e un glorioso "Treno" alla Morricone

Vite che si sfiorano portandosi dietro i loro misteri. Le rovine del bellissimo Albergo Diurno all’uscita della metropolitana di Porta Venezia (ora in carico al Fai) sono state ieri giusta cornice per l’addio di Vinicio Capossela a molte provvisorietà che sembrano sciolte nel segno delle radici: nato in Germania da genitori migranti, Vinicio si è reincontrato con se stesso nell’Alta Irpinia, luogo impervio per geografia, vegetazione e anime, fra Calitri paese di suo padre e il vicino Cairano definito «Il Paese dei Coppoloni»: titolo prima di un romanzo, poi di un omonimo recente film-documentario, la colonna sonora del quale è confluita nel torrenziale doppio album «Canzoni della Cupa» che esce oggi: 39 titoli, separati fra il capitolo 1 «Polvere» - dove c’è la rielaborazione di brani di tradizione orale e altri del grande Matteo Salvatore - e un secondo, «Ombra», 12 pezzi suoi sgorgati dalla quasi infinita frequentazione (le prime registrazioni sono di 13 anni fa) con quel mondo diventato ormai familiare: si concludono fra le trombe mariachi di «Componidori» e la strabiliante «Il treno», colonna sonora western morriconiano/irpina di sei minuti e mezzo, dove si racconta la fuga di un’intera vallata: «Così com’ero, restar non posso/Quello che sono mi porto addosso». Già, sempre migranti sono.
Una follia onirica, il progetto. Dietro il quale si indovinano mille difficoltà pratiche, tecniche ed economiche, che non hanno impedito a Vinicio di portare a termine un’autentica impresa concettuale: tale è, nell’Italia di oggi non affezionata alla memoria, far riemergere il folk, ridisegnarne i contorni e i confini, cosa resa possibile anche dalla collaborazione dell’immensa studiosa Giovanna Marini. Ma poi va oltre, appoggiandosi a territori più appetibili e cool. Ecco infatti i pellegrinaggi dell’artista/istrione/letterato alla ricerca di paesaggi sonori disegnati qui dai Los Lobos, Calexico, Flaco Jimenez, l’America più arsa del tex-mex.
Capossela si appassiona a un’atmosfera, a un posto, a un’idea, e la sviscera e trasforma fino a renderla propria. Un genio della riscoperta, unico nel suo genere: che qui propone con suoni tecnicamente profondi e strumenti affascinanti. La voce sussurra storie immaginifiche che evocano in modalità agreste le «Tale of Tales» di Garrone. «Ero attratto dal folk di Bob Dylan, ma cercavo qualcosa con radici che mi appartenessero», ha raccontato seduto sulla poltrona da barbiere del Diurno. Gli incontri con l’ancora vivente Matteo Salvatore e la sua lingua ostica («da lì ho provato a estrarre versi in italiano in forma di ballata»), gli inizi del lavoro in Sardegna nel 2003, e poi l’idea ultima di uno studio mobile in Irpinia, dove lasciarsi invadere da ospiti idee e mood.
Un lavoro scosceso, affascinante, che si articolerà dal vivo in due parti: la prima, di «Polvere», debutta il 28 maggio al Parco della Musica di Roma; mentre «Ombra» viaggerà l’Italia nell’autunno, con diversi musicisti, odori, umori.


Marinella Venegoni