MUSICA




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​​​​​​​Parliamo dei nostri gusti musicali
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MUSICA
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La vita di Frank Sinatra è un poliziesco d’altri tempi

Raccontare con la macchina da presa la genesi di accordi, ritmi, melodie, esplorare le radici dell’ispirazione artistica, ricostruire i percorsi esistenziali di rockstar, rapper, compositori, cantanti. La musica è la nuova miniera del cinema, e i festival sono la rampa di lancio di questa tendenza creativa, non completamente nuova (basta pensare a L’ultimo valzer di Martin Scorsese), ma sicuramente più marcata rispetto al passato. Se il pubblico apprezza, come ha mostrato di fare con Amy di Asif Kapadia, dedicato a Winehouse, c’è da giurarci, il fenomeno si espanderà perchè ormai - i videoclip insegnano - tra immagini e canzoni il legame è indissolubile.



Il Festival di Roma appena iniziato (con l’anteprima di Truth ) conferma l’orientamento e propone un gioiello firmato dal regista premio Oscar Alex Gibney, Sinatra All or Nothing at All , ritratto di «The Voice» a 100 anni dalla nascita, dall’arrivo a New York dei genitori italiani fino ai trionfi mondiali. Una ricostruzione minuziosa che, attraverso la lunga e straordinaria carriera del protagonista, delinea il profilo di un Paese.

L’ESSENZA DI UN’EPOCA

La chiave scelta da Gibney per affrontare lo sterminato materiale disponibile è la scaletta stilata dallo stesso Sinatra per il suo concerto d’addio a Los Angeles nel 1971: «Undici canzoni per raccontare la storia di una vita e cogliere l’essenza di un uomo e del suo tempo». Da amante dei polizieschi, spiega Gibney, «sono partito dall’idea di un mistero. Perchè Sinatra ha cercato di ritirarsi? E cosa voleva dirci con il suo concerto d’addio? Mi ha sempre interessato il Sinatra cantastorie, capace di raccontare storie potenti nell’arco di 3 minuti di canzoni. Quali storie stava cercando di raccontarci quell’anno?».

Di sicuro quella delle sue origini semplici, delle sue fortune, e delle sue contraddizioni. Dalla nascita («Pesavo 5 chili e 700 grammi, non volevo venir fuori, per fortuna c’era mia nonna che risolse la situazione») all’infanzia e adolescenza nel quartiere di Hoboken dove «gli irlandesi amministravano tutto» e gli italiani «parlavano in 55 diversi dialetti». Dall’incontro cruciale con Bing Crosby a quello con la giovane Nancy, la prima, amatissima, moglie che lo rese padre della figlia cui dedicò il brano Nancy with the laughing face. E poi dalla guerra ai primi successi, dai rapporti con la famiglia Kennedy a quelli con Cosa Nostra, dalle innumerevoli conquiste femminili, in testa la dispotica Ava Gardner. Il film di Gibney è un’opera straordinaria che mette a fuoco, una volta per tutte, la figura complessa di un monumento della musica mondiale.


Nello stesso giorno, sul palcoscenico del Festival diretto da Antonio Monda, sfilano le sequenze di Junun, il documentario di Paul Thomas Anderson sul viaggio in Rajastan del chitarrista dei Radiohead Jonny Greenwood e sulla nascita dell’album realizzato insieme al compositore israeliano Shye Ben Tzur. Junun è la cronaca ravvicinata di una creazione artistica multietnica, nutrita da suggestioni legate alla meta del viaggio, il Forte Mehrangarh risalente al XV secolo.


Che le contaminazioni fra diverse culture siano fruttuose lo dimostra anche Street opera (presentato nella sezione «Alice nella città») dove il regista iracheno Omar Rashid descrive, nell’arco di 2 anni, il mondo dell’hip-hop italiano, dall’Alcatraz di Milano ai centri sociali e agli spazi occupati. Protagonisti del racconto i 4 rapper Clementino, Gué Pequeno, Danno, Tormento e l’attore Elio Germano con il suo gruppo Bestierare.