MUSICA




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James Taylor: "Non smetto. Vocalizzi, la mia unica droga oggi è questa"

I primi passi al Greenwich Village ("a diciott'anni per un sandwich cedetti tutti i copyright"), l'eroina ("cominciai presto e continuai di brutto"), il lungo flirt con Joni Mitchell, poi l'incontro coi Beatles e finalmente la rinascita davanti ai duecentomila di Rio de Janeiro. "Sono in giro ormai da cinquant'anni" confessa ora che ne ha sessantasette, tre matrimoni, due figli grandi e due adolescenti, cento milioni di dischi venduti e cinque Grammy.

La chitarra. Il cappello. Lo sguardo sereno. Uno sgabello. Un fascio di luce blu. E le melodie seducenti e malinconiche, sempre quelle, semplici, contagiose, antiche, mai rétro. Fire and Rain, Sweet Baby James, You've Got a Friend. Cento milioni di dischi venduti, cinque Grammy Awards, uno scranno nella Rock'n'Roll Hall of Fame. "Sono in giro da cinquant'anni, e non mi fermo", dice James Taylor mentre ripone lo strumento nella custodia e impacchetta le sue cose per la prossima destinazione, Parigi.

In Italia tornerà presto per sei concerti: il 18 aprile a Torino, il 19 a Roma, il 21 a Firenze, il 22 a Trieste, il 24 a Padova, il 25 a Milano. "Non mi sono mai concentrato sul futuro. Comincio a farlo ora che ho due figli adolescenti e che mia madre è molto anziana. Lavoro, affronto i problemi giorno per giorno, mi faccio forte delle mie certezze. La voce è ancora in forma, continuerò a fare il mio mestiere finché la salute me lo permetterà. Ho sessantasette anni, non sarà per sempre, non ho mai pensato che sarebbe stato per sempre".



Viaggia col suo angelo custode, Caroline Smedvig, un tempo nello staff della Boston Symphony e buona amica di Claudio Abbado, terza moglie e madre degli splendidi gemelli Rufus e Henry. Ben e Sally Taylor, avuti dal primo matrimonio con la pop star Carly Simon, durato dieci anni, sono ormai cantautori in proprio. Di Carly, James non parla mai; ancor meno della seconda moglie, l'attrice Kathryn Walker. "Il tempo ha avuto la meglio su quelle storie", mormora, "non è stato "finché morte non ci separi", anche se in realtà avrei potuto lasciarci le penne già all'epoca in cui avevo messo su casa con Carly".

Lo dice serenamente, senza fare il nome del mostro. Eroina. Poche parole per riassumere anni di dipendenza: "Cominciai a bucarmi a New York a diciott'anni e a Londra continuai di brutto. Tornai negli Usa a pezzi, ci vollero cinque mesi per rimettermi in sesto. Il produttore Peter Asher, che si era trasferito nella West Coast, m'invitò a suonare a Los Angeles. Era il 1969, l'inizio della mia fortuna come cantautore". Si toglie il cappello, una calvizie vistosa dove una volta c'erano i lunghi capelli che facevano sognare le girls della Woodstock generation. Il sogno californiano fece bene all'artista - che entrò da protagonista nel leggendario clan di Laurel Canyon: un lungo flirt con Joni Mitchell, e tra gli amici Mama Cass, David Crosby, Neil Young, David Geffen e Carole King, l'autrice di You've Got a Friend, che sarebbe diventato il suo inno - ma non pose fine al vizio contratto nel Village.

Flashback: "Era il 1966, un periodo straordinario quando Danny Kortchmar e io, che ci esibivamo con il nome di The Flying Machine, cominciammo suonando al Night Owl Café, nel Greenwich Village. Ci restammo per otto mesi. In giro c'erano Dave Van Ronk, Eric Von Schmidt, Joan Baez e Bob Dylan. Imparai tanto sulla musica e ancor più sulle droghe. Eravamo artisti allo sbaraglio, non avevamo idea di come girasse il music business. Con il nostro infantile entusiasmo riempivamo le tasche di editori e impresari. Cercavo un modo di esprimermi, ero un alieno, un adolescente inquieto e pieno di problemi che non riusciva a immaginare quale fosse il suo ruolo in questo mondo né a vedere un possibile inserimento nella società.



Provai un grande sollievo scrivendo canzoni e suonandole. Piacere a qualcuno era tutto quello di cui avevo bisogno per andare avanti". All'epoca avere un contratto era indispensabile e neanche troppo difficile. I Flying Machine furono notati da Chip Taylor, il fratello dell'attore Jon Voight (il padre di Angelina Jolie), che intuì il potenziale delle canzoni del piccolo James e si assicurò un sostanzioso pacchetto di edizioni. "Avevo diciotto anni, mi accontentavo di un sandwich, non mi rendevo conto che cedendo il copyright regalavo a quegli sciacalli il mio futuro. Non ho mai avuto neanche un cent dagli introiti dei primi successi. Un danno da venti milioni di dollari, a dir poco". Ascoltando quelle ballate nessuno avrebbe immaginato l'inferno in cui era sprofondato; il fatto che Fire and Rain parlasse del suicidio di una sua ex sembrò più un dettaglio romantico che una nota drammatica. James Taylor incarnava il cantautore dei buoni sentimenti, uno pulito. E lo era, non fosse per il demone della siringa. "Deve capire che, a parte la musica, nella mia vita non c'era nient'altro. Ero uno che viveva ai margini.

Il successo non portò pace né sollievo, solo caos e confusione - ma come negare che quello fu un periodo eccezionale, eccitante, creativo? Non mi rendevo conto di essere un protagonista, dentro di me ero l'eterno secondo: di Danny Kortchmar, di Joni Mitchell, di Carole King. Non facevo caso ai paroloni che usavano i promoter quando parlavano di me. Avevo bisogno del palco perché solo lì mi sentivo al sicuro". A New York James visse come un drop out; era ridotto al lumicino e forse non sarebbe mai arrivato al grande successo se, devastato e senza un soldo, non avesse invocato l'aiuto di suo padre Isaac con una collect call da una cabina telefonica di Washington Square. Il Greenwich Village fu il primo capitolo, Londra il secondo. Danny e James finirono nell'orbita del magical mystery tour dei Beatles e, complice Peter Asher, suonarono le loro canzoni a George Harrison e Paul McCartney (fu proprio Something in the Way She Moves, una delle prime composizioni di Taylor, a "ispirare" Something di Harrison).



"L'etichetta Apple si dimostrò interessata, ma avevo già firmato a New York un contratto che mi aveva tagliato le gambe", racconta Taylor. "Non sarei mai rientrato in possesso - economicamente intendo - dei diritti di quelle canzoni. Registrammo alcune session a Abbey Road che la Apple pubblicò dopo il successo di Sweet Baby James: incomplete, improvvisate, un disastro, peggio di un bootleg. Gli artisti dell'epoca temevano l'industria discografica come la peste: ti facevano firmare un contratto e si aspettavano che dessi il massimo senza rischiare un centesimo. Ma per noi essere nella scuderia dei Beatles era un privilegio, il denaro era l'ultima delle priorità. Incontrare i Fab Four fu come trovarsi alla presenza di santi canonizzati. Erano gli eroi di Sgt. Pepper, in quel periodo impegnati nella lavorazione del White Album. Purtroppo l'etichetta Apple rimase sotto il loro controllo per meno di un anno. Poi tutto finì nelle mani di un manager spregiudicato come Allen Klein, altro squalo del music business, l'uomo che più di chiunque altro fu causa, a mio parere, dello scioglimento del gruppo". Il viaggio a Londra non fu risolutivo come per Jimi Hendrix. Altre delusioni. Più eroina. Da quell'incubo James sarebbe uscito solo quindici anni dopo, quando nel 1985, a sorpresa, annunciò il suo ritiro. "Rock in Rio sarà la mia ultima performance", dichiarò, prima di presentarsi in scena nel più affollato festival rock della storia davanti a duecentocinquantamila spettatori in adorazione. "Fu il punto più basso della mia carriera. Stavo riprendendomi dagli ultimi anni della mia dipendenza, un periodo - chi ci è passato lo sa - molto deprimente. Quel concerto fu la spinta di cui avevo bisogno, energia pazzesca, esperienza meravigliosa". Rinacque dove era andato a morire. "Era un momento di particolare euforia per il Brasile; le prime elezioni portarono alla vittoria Tancredo Neves (che si ammalò e morì prima dell'insediamento, ndr), il paese era letteralmente in estasi. Mi cullai in quell'atmosfera, nelle musiche di Antonio Carlos Jobim, João Gilberto, Chico Buarque, Caetano Veloso, io che ero cresciuto con Leadbelly, Pete Seeger, Muddy Waters e Furry Lewis". Oggi è finalmente il James Taylor che i fan immaginavano nei primi anni Settanta - onestà, poesia e impegno (infaticabile sostenitore del presidente Obama e del suo programma). "Canto ogni giorno. Tony Bennett mi ha detto: se trascuri i tuoi esercizi una volta lo sai solo tu, se lo fai per due volte lo nota la band, se lo fai per tre se ne accorge anche il pubblico, se lo fai per quattro i critici ti fanno a pezzi. A volte uso i vocalizzi per rilassarmi, li ripeto come un mantra. Questa ormai è la mia unica droga".