MUSICA




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Paolo Fresu, "30" anni di carriera - "Basta guardare soltanto al passato"

Paolo Fresu, 53 anni, gloria italiana della tromba, festeggia 30 anni di carriera con 200 concerti l’anno, uno dei quali sarà il Primo Maggio al Festival Jazz di Torino. Festeggia con un album appena uscito, «30» appunto: brani suoi e altri di colleghi della sua band, un classico nervoso di Purcell, trasparenze jazzate, leggerezza consapevolmente impegnativa. Il mondo cambia, l’artista sa assecondarne lo spirito senza tradire la propria vocazione e questo fa Fresu, dall’eloquio sciolto e dai pensieri onnivori. E’ sposato con una violinista, con un bimbo che già impara tanti strumenti; è figlio di un pastore sardo e cittadino del mondo.
Caro Fresu, trent’anni di jazz con un segno di fedeltà: da trent’anni suona con la stessa formazione...
«Il quintetto è nato con me e il pianista Cipelli nell’84, eravamo due sbarbini. Penso sia la formazione più longeva del jazz europeo. Sempre con la voglia di divertirci; credo nei rapporti umani, non ci si divide mai per la musica. In «30» abbiamo provato a metter in un unico disco la personalità di ognuno».
Che cos’è oggi il jazz?
«Non si sa neanche bene cosa significhi, dopo 100 anni. Bisognerebbe coniare un nuovo termine per definire la musica che fu di Parker e Armstrong. Ci si porta dietro tutto, anche un certo pop, non vedo più il problema che il jazz spaventi. Se nei ‘70 il free ebbe valenza sociale e politica, oggi ognuno ci può trovare quello che ama. C’è un modo di porsi completamente cambiato. Come diceva Duke Ellington, la musica si divide in buona e cattiva».
L’attenzione ai nuovi fenomeni?
«Non è troppa. In Italia ci sono famiglie strette, fuori c’è più curiosità, e dunque voglia di scoprire, e più attenzione. In Italia soffrono il sistema di mercato, e chi la musica fa e produce. Anzi il jazz soffre un po’ di meno perché lo si ama, il vinile ha un grandissimo mercato mentre in Scandinavia il disco non esiste più. Ma da noi la gente va volentieri ai concerti e lì compra il disco, c’è voglia di trovarsi in luoghi collettivi. Però c’è disattenzione nel confronti della cultura, nostri monumenti sono anche i libri, la musica, l’arte che si crea oggi. E se i nostri politici non si riconosceranno nelle persone che creano, questo è un paese perdente, perché non si può vivere solo guardando al passato».
Perché non va a spiegarlo a Renzi?
«Lo scorso novembre sono andato a parlare con l’ex ministro Bray, c’è stata attenzione ma siamo pronti a riprendere il dialogo con le istituzioni, è anche necessario non lamentarsi soltanto. E’ appena nata una associazione di amici del Jazz che ci dovrebbe rappresentare. Pensi che il mio Festival a Berchidda, tremila abitanti, produce 4 volte di incasso rispetto alla spesa, e crea indotto anche sulle menti, vengono stagisti da tutta Europa».
Lei è figlio di un pastore, si è conquistato tutto con i denti..
«Ho i piedi per terra, non so nemmeno nuotare. Non è stato così difficile, ho fatto tutto con passione, dalla Banda Musicale del paese al gruppo che suonava Dalla o Stevie Wonder ma anche Casadei, fino a trovare il jazz, infilandomi nel cambio generazionale. E poi i miei genitori nella loro saggezza popolare hanno sempre avuto grandissimo rispetto della cultura e dell’arte. Mio papà, a 90 anni, continua a venire a tutti i nostri concerti in Sardegna».
Perché i trombettisti hanno tanto successo?
«La tromba è lo strumento più vicino alla voce umana, si canta dentro. Molti grandi trombettisti, Armstrong Gillespie, Chet Baker, erano anche grandissimi cantanti. Io? Non canto».
In che rapporti è con Enrico Rava e Fabrizio Bosso, le altre grandi trombe italiane?
«Ottimi. Per Fabrizio ho scritto le note di copertina del penultimo disco, per me è tecnicamente uno dei più grandi. Con Enrico c’è grandissima stima e una bella amicizia. Ognuno ha il suo mondo, non c’è competizione».
Il Festival Jazz di Torino?
«La città è stata protagonista degli inizi di questa musica in Italia, meritava questo Festival, era importante che si riappropriasse di una manifestazione di livello».

Marinella Venegoni
www.lastampa.it