MUSICA




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​​​​​​​Parliamo dei nostri gusti musicali
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MUSICA
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First song, Stan Getz e Kanny Barron

“Fate tacere quel moccioso!”
Un ragazzino. Un edificio popolare nel Bronx, case di ringhiera proprio una accanto all’altra. Suona per ore ed ore chiuso in bagno…“Fatelo star zitto!!!!” Voci saettano da vuote finestre che dal bagno s’intravvedono… “Suona più forte, Stanley!” Strilla imperiosa la madre (rif. Mel Martin, Saxophone Journal, 86). Lui tace, tace e suona anche otto ore al giorno… Difficile togliersi dalla mente l’immagine di un bambino chiuso in un cesso a suonare mentre fuori urla d’esasperazione e di sfida - “fatelo tacere”/ “più forte” - si rincorrono e lo accerchiano.

C’è qualcosa di kafkiano nell’immagine di un bimbo talentuoso che si dice diriga “fantasticando” un’orchestra di fronte alla radio davanti al sorriso compiaciuto dei genitori, chiuso in un gabinetto, luogo deputato alla funzione di “scarico dei rifiuti, degli scarti del corpo umano”, a suonare… C’è qualcosa di kafkiano in questa “cornice” anonima, “fredda” dove il meglio che si può fare è lavarsi e ciò presuppone l’essere sporchi, frequentata da nudità spinte dal bisogno impellente (e piacevole) dell’evacuazione: “impulso grezzo” che mira direttamente a liberare la tensione di ciò che non si può trattenere, l’imbarazzo di ciò che deve essere espulso; luogo che dovrebbe essere “privato” e dove, invece, s’introduce una “penetrazione sonora” stridente e sbraitante, frenetica, ansiosa, aggressiva e rifiutante.

E c’è qualcosa di kafkiano anche in questa triangolazione “muta” che delinea un’incomunicabilità radicale: le urla gridano a casa Gayetsky (usando lui), la madre urla al figlio nella piccola stanza da bagno (parlando a loro attraverso di lui), parlano di lui, ma non parlano con lui. Lui tace e suona, tace e mette tutto il suo fiato dentro un sax… E, ancora, non c’è una funzione regolatrice paterna, c’è un padre di tipo “volatile” spesso senza lavoro e un po’ sbiadito dalle tinte forti della sig.ra Gayetsky che ha in-vestito sul figlio da cui pretende, da cui si aspetta molto e che “veste” in modo meticoloso come “un manichino”. Continueranno tutti a chiamarlo “il manichino” anche da adulto, da professionista, per la sua eleganza, ma niente come un manichino trasmette la sensazione dell’inanimato, di un essere “come se” fosse un uomo, un oggetto cui manca la vita dentro… Il “look” materno sembra essere non tanto, o non solo, uno “sguardo” tenero e affettuoso, ma un’ esigente richiesta d’apparenza che avvolge e ri-veste il bambino: “come lei lo vuole”.
Aderire, corrispondere al desiderio materno, è il desiderio più alto di un bambino e, contemporaneamente, dar soddisfazione ad una madre insoddisfatta è un’operazione impossibile, uno stress sovrumano ed è possibile che dentro alle mura di quel bagno, dentro a quell’abito non suo, solo, isolato e sotto assedio, dentro al “silenzio” delle parole, Stanley invece di maturare “un sè” intero e autonomo si spezzi dentro e una parte di quel sè si fratumi in sè “dipendenti” forse vestiti da “come se”. Il sassofonista Zoot Sims dice di lui: “He’s a nice bunch of guys”, “sì…lui è… un bel bruppo di ragazzi” sottolineando la sua “vasta gamma” comportamentale.
Kafka scrive “la musica erige intorno a me un muro impenetrabile” (Diari,281), “così imprigionato sono diverso da quando sono libero” (Diari,354) e, ancora, “Io cerco sempre di comunicare qualcosa di non comunicabile, di spiegare qualcosa di inspiegabile, di parlare di ciò che ho nelle ossa e che soltanto in queste ossa può essere vissuto” (Lettere, 876), si definisce “unmusikalisch” (anche se la sua prosa è musicale, eccome!) e, certo, Stanley Gayetsky è, invece, molto più che musicale: capace di memorizzare e risuonare spartiti visti e melodie ascoltate una sola volta, con un istintivo senso del ritmo e dell’intonazione (intonava a canto muto): sarà definito “the sound”, un assoluto, per la bellezza, l’unicità del tono… alla prima nota riconoscibile come “suo”, “propriamente suo”, “solamente suo”… un marchio identitario. Ma il muro esiste dentro di lui e si erge insormontabile tra la vita e la musica, due campi separati, due identità che sembrano diverse. Oltre al muro li accomuna il “comunicare l’incomunicabile”, “spiegare l’inspiegabile”… fare l’impossibile: Kafka lo esprime attraverso una scrittura dell’angoscia e dell’assurdo sospesa e tormentata che impregna la realtà d’inconsistenza esistenziale, Stanley compie il prodigio con la musica, ma se per kafka anche “il possibile è impossibile” (Lettere, 347), per Stanley l’impossibile deve diventare possibile.

Se per Kafka la cornice di distrazione si materializza con l’imprevedibilità della musica, dei suoni e in genere dei rumori che non gli permettono di ascoltare la propria musica interiore e trasformarla in scrittura, per Getz la cornice dolorosa, frantumata, dipendente, violenta, distruttiva e autodistruttiva è necessaria per accedere alla propria musica interiore e creare la “perfezione”, “dar vita/respiro/anima all’inanimato”, mantenere la complicità con “lei” nella conservazione dell’idolo/bambino (rif. M. Khan), il bambino prodigio, oggetto della creazione materna. Dualità che esclude “l’altro”, l’elemento regolatore, ipotesi di realtà, accesso ad una triangolazione vera dove il “terzo” non sia necessariamente onnipotente: o perfetto o fallito. Nasce così Stan Getz con un nome “proprio” troncato di netto e un cognome dalle lettere “selezionate” , “distillate”, completamente trasformato perchè ” il suo”, ebreo che veniva dalla Russia bianca, “non era ben accolto” dalla società.
Il biografo Donald L. Maggin in “A Life in Jazz” sembra presentare due narrazioni distinte del “suo idolo”: personale e professionale, anche lui non riesce a sottrarsi al fascino di Stan e la bilancia mi pare penda a favore dell’artista. Maggin vede una spaccatura tra vita e arte, ma noi sappiamo che c’è sempre un rapporto tra cornice e contenuto e anche qualora “non ci fosse”, l’assenza di relazione sarebbe il “rapporto esistente”… così come c’è un legame tra perfezione e violenza. Solo la moglie Monica ammette il lato violento del marito dopo che si è reso necessario per lei un intervento di ricostruzione facciale, dopo uno strangolamento che le ha “tolto il respiro” fino all’incoscienza, dopo aver visto una pistola puntata alla tempia… Monica ammette, ma , anche con i figli che hanno assistito e che si definiscono “vittime di guerra” ( “Stan Getz Through The Years”, J. Hooper, N.Y.Times Magazine, 1991, Intervista a Bev Getz), lo scusa… “non è colpa sua, è l’alcol”. Non c’è alcun dubbio che Stan stesse male, una grave depressione, tentativi di suicidio e alcol, morfina, eroina per eludere il dolore mentale, non sono demoni da poco; ma anche Monica è prigioniera di un’idea di perfezione: l’irresponsabilità innocente, “non è colpa sua”.

Ora, se è vero che non tutti i violenti, tossicomani, depressi sono meravigliosamente talentuosi come Getz è pur vero che non tutte le persone geniali, creative e ricche sono infami, crudeli, fredde, vischiose e insensibili. Le mancanze personali di Stan sono brutalmente connotate, intollerabili, “demoniache”, ne fanno un individuo “bidimensionale” anche se sono “compensate” da una sonorità paradisiaca non solo tridimensionale, ma dotata di un’ulteriore dimensione che volge alla ricerca, alla perfezione e “tesa” alla “ricerca della perfezione”, una grandezza vettoriale quasi magica/mistico/religiosa che di quell’inferno emotivo, senza parole, si nutre. Il suo paradiso ha bisogno di un inferno: il “suo” e quello altrui. Il “distillato” sonoro di perfezione che egli raggiunge sfrutta dolorosissimi punti d’ebollizione di sè che “brucia”, come in “fiammate”, una modalità che alimenta la separatezza, la distanza interiore, la “messa in atto”. Produce, sì, un fraseggio limpido, cristallino e delicato, un periodare umido, sensuale, fluido che si insinua dentro “come se” “sentisse” un corpo di donna e “come se” “lo desiderasse” (perchè, non c’è dubbio: lui suona per una donna, sempre), un “sound” che penetra sensualmente, un’ispirazione creativa che raggiunge vette di ineguagliabile purezza, un suono morbido, impalpabile, vellutato che ti accarezza dolcemente con note sospirate, vaporose e sublimi, appassionate, ricercate e “perfette” “come se” fosse amore, ma a scapito dell’altra parte di sè, quella che soffoca, picchia, usa, intossica, ricatta, prosciuga, tradisce, manipola, relega a contenuti fecali, “evacua” con continui “passaggi all’atto”: “acting out” di cui anche la sessualità mi pare sia parte. Un modo per non pensare, un corto circuito che esclude la “presa d’atto” del malessere, la verbalizzazione, la consapevolezza del dolore infinito inflitto e inflittosi ma “non sofferto” davvero e “messo a tacere” mentre si aggrappa alla “messa in scena”, luogo dove il dolore non ha posto. Un prezzo altissimo.
” Suona tutte queste canzoni d’amore come se lui ci tenesse davvero, ma fa male alle persone e ferisce più di chiunque altro”, dirà di lui Zoot Sims. Ha fatto di tutto: rapinato la farmacia dell’ospedale mentre la moglie al piano di sopra partoriva, picchiato, tradito le mogli con amanti e le amanti con altre amanti, gli amici… Da ragazzino rubava i soldi dal borsellino della madre per pagarsi lezioni di musica, da adulto continuerà a “spostare” a “prendere da un luogo per portare in un altro “, esattamente quello che ha fatto con se stesso: impoverire e saccheggiare una parte di sè per portare valore all’altra, salvare una parte distruggendone un’altra. Egli stesso dice: “La mia vita è la musica, e in qualche modo vago, misterioso e inconscio, io sono sempre stato guidato da una molla tesa interiore che mi ha spinto a raggiungere quasi compulsivamente la perfezione nella musica, spesso – anzi, soprattutto – a spese di tutto il resto della mia vita”. Non sa quanto questo, tragicamente, corrisponda al vero. Scrive S. Freud: “C’è una storia dietro ogni persona. C’è una ragione per cui loro sono quello che sono. Non sono così solo perchè lo vogliono . Qualcosa nel passato li ha resi tali e alcune volte è impossibile cambiarli”.
Stan è timidissimo, non riesce a parlare, l’ansia lo satura e “lo” prende il panico se deve parlare in pubblico, non ha le parole e forse neppure sa il significato dei gesti violenti; il suo è un dolore silenzioso “durissimo”, roccioso e “impenetrabile” perchè “il dolore, è più dolore se tace” (Pascoli)… A poco gli giova “penetrare” amori-fuochi di paglia, amori ricattati, amori fatui, amori rubati, amori ingannati, amori altrui passando da una “lei” a un’altra “lei”: è lui che “si manca”. Beve per farsi coraggio fin dall’età di 15 anni e continua a farlo per quasi tutta la vita. La sua è una continua ricerca di eccitazione esterna per compensare la diminuzione interna e, forse, è anche la base della sua dipendenza. E quella che Stan chiama “lei”, in una lettera disperata al direttore di “Down Beat” dopo la condanna per droga e tentata rapina, non è una donna ma la dose quotidiana di veleno. “Si spara” eroina nel sangue mezz’ora prima di salire sul palco per “farsi animo”, animare il manichino “de-animato”, garantirsi vitalità per la durata di quel tempo, una musica principesca vestita elegantemente, ma soprattutto l’accesso a quella parte di sè aggredita, de-animata, murata e messa a tacere.
In First song il soffio vitale diventa suono dolcissimo, pastoso e caldo che si inumidisce di pianto e malinconia. Tutte le parole non dette, non conosciute, non pensate, non ascoltate o agite, come una sorgente purissima e cristallina “ignota”, sgorgano e prendono forma nel respiro dentro il sax tenore. Getz non dà solo forma ai suoni, dà la sensazione e il significato delle proprie parole al suono. Il non-detto diventa suono e l’impossibile diventa possibile: il suono torna ad essere parola nuda che parla il linguaggio più intimo. Parole spoglie, emozionate, snelle, punteggiate di silenzi, scolpite tra le pause, respirano, rompono muri, conquistano spazio e abbracciano una “gamma di emozioni” capace di esprimere l’intera esperienza esistenziale di ogni uomo. Quello di Stan Getz è il sax più “parlante” della storia del jazz.
“First Song” (di Charlie Haden, scritta per la moglie Ruth) interpretata da Stan Getz e Kenny Barron sfiora la trascendenza, confina con il sublime e raggiunge la perfezione assoluta. Anche fosse l’unica loro registrazione, per quel che mi riguarda, sarebbe sul podio del jazz. La introduce umilmente Kenny Barron con i tratti di un’invocazione, con un tocco gentile, sensibile, rispettoso e “stabile” che risuona dolorosamente su ogni tasto del pianoforte e tu sai già che andrai a soffrire, ma ormai è tardi sei bell’e catturata nelle maglie dell’arpeggio iniziale che cede quasi subito la “parola” a Getz: “una musica”, come direbbe Baudelaire, che “scava il cielo”.

Note giuste al momento giusto, intense sfumature, insospettabili giustapposizioni drammatiche, l’ eloquenza espressiva di chi è maestro di spazio e silenzio, tono e colore, suono e parole, parole che con emozione d’amore parlano: amore, amore, amore perduto, amore che c’è, amore finito, amore ritrovato, amore “ricercato”…”Come se” questa parola gli fosse stata “proibita” da un tempo infinito, “come se” non avesse potuto dirla per tanto tempo ora la ripete in modo quasi mistico come per liberarla e trattenerla, assaporarla e “averla”. La frenesia si è “posata”, Getz approda ad un tempo leggermente ritardato, indugia sulla melodia come sussurrasse parole sospirate, appassionate, parole urgenti, parole coraggiose che non hanno più vincoli, non hanno più riserve. Un suono che si svincola da ogni bagno, da ogni palcoscenico, da ogni pubblico, da qualsiasi luogo esterno, per rifugiarsi in quello interno, un suono parola che si slega dall’ansia, dal panico, dalla violenza e… più si allontana dal caos turbolento della sua vita più si avvicina e si avvinghia intimamente al suo sè interno. Sparito il “come se” è “sincero con la musica”, come direbbe W. Marsalis, vuole tirare fuori da dentro se stesso, anche scarnificandosi, ogni pulviscolo di emozione, di sentimento, di verità. Ammette ogni cosa, denuda il suo cuore, lo squarta e lo traduce in una sonorità “qui e ora”, uno spazio/tempo non più separati ma uniti in una dimensione siderale che si fa davvero eterna. Non ci sono note “alla ricerca di”, la messa a fuoco è nitida: c’è una coincidenza sonora piena che risuona come un’eco e sembra provenire dalle viscere del mondo. Qui è Barron la “cornice”, una cornice pertinente, prestigiosa e accogliente, una cornice sana, “stabile” e rispondente, una cornice che “sa tenere”, una “cornice” dove Stan sa ri-trovarsi. Una cornice che sa leggere dentro Stan e anche dentro di noi portandoci oltre quella linea delicata, raramente valicabile, tra l’amore e l’angoscia, tra silenzio ed empatia , tra la vita e la morte. C’è una meravigliosa corrente tra Kenny e Stan, tanto intensa da essere quasi “visibile”, tanto rara da sembrare una magia, una comunicazione quasi “telepatica” che non ha bisogno di altri strumenti se non due animi ricettivi: un sontuoso equilibrio li accomuna, un sentire insieme, la consapevolezza di emozioni e pensieri dell’altro, la capacità di assumerli e riverberarli empaticamente.
Stan è il perno emotivo del brano che suona come un epitaffio, in tonalità minore, fin dalle prime note: un dolore si fa strada tra solitudini e pezzi di vetro, menzogne e sangue versato, silenzi impauriti e asfalto bagnato, odore pungente di orina e alcol, letti disfatti e siringhe, passi strascicati e tombini fumanti vapore in una notte che sempre stata notte mentre, inarrestabile, scava un solco, un letto per il fiume di lacrime. Barron è magnifico nel tessere una trama di sinuosi arpeggi consolatori e rassicuranti, una che trama serpeggia premurosa, tra una sonorità e l’altra, come una madre, ma infaticabile, imponente e autorevole come un padre. E’ capace di assumere gli stimoli musicali di Stan di rifletterli all’interno della propria melodia per poi reintegrarli in una nuova lunghezza d’onda, con una nuova luce, un’accennata alba che, come un pallido raggio di luce, rimanda a Getz senza “tradire mai” la tristezza di fondo, l’atmosfera emotiva che li fa complici commossi e silenziosi. Barron “sa tenere” magnificamente anche quando la voce del sax si fa quasi stridula per la disperazione, non lo lascia, non lo lascia mai cadere, non lo lascia mai solo. Neanche lontamente può definirsi un accompagnamento il suo, se non in un unico e nobilissimo senso riservato a pochi: Kenny è la persona che vorresti avere al fianco quando la vita ti sta abbandonando. Ed è proprio quello che sta accadendo a Stan.
Dopo cinque minuti è Getz a lasciare spazio a Barron. Il suo assolo esemplare è un’altra creazione. Egli è vicino, affine, in sintonia , ma anche diverso, capace di distinguersi e dà vita alla sua interpretazione sulla tastiera con gusto, classe, generosità che gli sono propri e porta avanti il mondo sonoro di Stan con sobrietà e commozione restando sempre “dentro” il pezzo, senza allontanarsi dal testamento “silenzioso” che Stan sta scrivendo, dalla pioggia di rimpianti che tra le note si srotolano, dai sussulti, dai singhiozzi, dalle implorazioni che il fiato umido rovescia fuori, dalla sacralità di quegli ultimi passi, dal dolore infinito che sfonda i muri e varca la soglia del cuore. Barron mantiene l’atmosfera perfetta, l’ambiente emotivo immutato e riconsegna a Getz il suo discorso musicale arricchito delle proprie parole sonore, delicate, affettuose, vicine, consapevoli, umane che sono anche un terreno fecondo, un luogo propizio, un arco teso da dove Stan può lanciare il suo animo verso le stelle. Quando Getz rientra, dal sax esce letteralmente un urlo di dolore misto ad un torrente di lacrime, un urlo memorabile che solo Munch è riuscito a dipingere, un urlo “penetrante” che strazia l’anima, pugnala il ventre, scatena il pianto. Un urlo disperato di chi sa che la vita lo sta lasciando, un urlo così lacerante che rimanda a una dimensione universale, un elemento che accomuna, un tocco di interezza fertile, di conclusione trasformativa, una commozione simile al perdono…

E’ “come se” un maschile e un femminile finalmente si fondessero, anche se nell’ultimo istante, con l’ultimo abbraccio, con l’ultimo bacio tra le ultime parole bagnate di lacrime quelle che si dicono quando non c’è più tempo o forse è il grido di un uomo che ritrova la vita nel momento in cui “lei” lo lascia, o l’urlo di un uomo che abbraccia un sè nudo, impaurito e disperato e all’improvviso scopre una verità appresa troppo tardi mentre “si vede” nei suoi occhi colmi di lacrime di se stesso. Nei quattro anni di collaborazione con Barron Getz si disintossica; egli definisce Barron “la sua metà musicale”, ma Kenny rappresenta anche una “metà” terapeutica che stoppa la distruzione e inserisce la ricostruzione; purtroppo non c’è tempo, un “silenzioso” tumore la fegato, l’organo che “distilla”e “seleziona” le tossine trasformandole in sostanze tollerabili per il sangue, si porterà via Stan due mesi dopo questa incisione, nel 1991… nonostante egli ripetesse “I’m too evil to die”.
Un testamento musicale questo, un’eredità immortale: “Sono fiero di essere un jazzista e per lo stesso motivo voglio che i miei figli e figli dei miei figli siano fieri di me” dice. In “First gong” chiede mille volte perdono Stan, fa ammenda, vuole purificarsi, allontanare i demoni e forse la malattia… C’è un elemento quasi religioso in una cascata di note suonate sottovoce come una preghiera, come direbbe Proust “le opere, come nei pozzi cartesiani, salgono più alte quanto più a fondo la sofferenza ha scavato” e non si finisce mai di ascoltarle proprio perchè ti stanno dicendo “addio”. Non c’è più separazione tra cornice e contenuto poichè il senso produce la forma e la forma stessa è produttrice di senso, la musicalità di Getz è qui è puro lirismo, poesia suonata e come scrive Kafka “ogni periodo, ogni parola, se mi è lecito, ogni musica è collegata con l’”angoscia” (L, 826). Il manichino, l’esteriorità del cerimoniale vuoto, anaffettivo, inerte lascia il posto ad un profondo senso del sacro volto a reintegrare, ricostituire, riparare con onde sonore emozionanti ed emozionate il sè più intimo, autentico e onesto che Stan possa ritrovare.
Note altissime che non riuscivo a smettere d’ascoltare e ogni volta che la musica finiva la riascoltavo ancora e ancora, come se non avessi capito fino in fondo, come se non sapessi cogliere la passione travolgente nelle note segrete, come se anche io non fossi capace di dire un dolore indicibile. O forse era solo un modo infantile per ritardare “l’altra” fine… quella delle sue ceneri consegnate alla brezza sull’Oceano Pacifico.
La musica è un mondo, ma in questo pezzo è l’animo di Getz che dà forma al mondo.
Ci sono musiche che penetrano nel midollo, si cementano nelle ossa, spalancano stanze ignote , antiche, silenziose, lontane… Scorrono fluide come sangue di vita, di ferite, di nostalgie, di dolore…percorrono tracciati di pensieri non ancora pensati, s’impastano ai colori, ai brividi, al calore della pelle…Risuonano e battono col tuo cuore, sgorgano come lacrime, respirano con te. First Song è una di quelle: “la musica esprime ciò che non può essere detto e su cui è impossibile rimanere in silenzio” V. Hugo.

Tiziana Campodoni


http://blue-moon.com.unita.it/culture/2013/10/04/stan/

Stan Getz e Kanny Barron - First Song