MUSICA




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MUSICA
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"Io non appartengo più" di Vecchioni - Sempre un prof., ma il disco è bellissimo


Professore per una vita, arte innata della divulgazione culturale, Roberto Vecchioni è un esperto avvincente di storia e sentimenti, per studenti e per persone normali purché non distratte. L’artista uscito da una costola della sua vasta conoscenza ha fatto parte della storia più nobile della canzone d’autore, prima che una tardiva vittoria a Sanremo mettesse ali più leggere alla popolarità conquistata. Lo ha rimesso al suo posto, pochi giorni fa, la notizia della candidatura al Nobel per la letteratura, che sembra tirar la volata all’album di inediti in uscita in questi giorni. «Io non appartengo più» è forse il più sorprendente di una lunga storia lineare, sui binari di un doppio lavoro mai abbandonato fino alla pensione dalla scuola. Un album di 13 canzoni tutte utili, «un momento di riflessione in cui ci si guarda intorno e non ci sono più punti di riferimento», lo definisce lui: formidabile la capacità interpretativa, attorale a tratti, in una cavalcata concettuale e piacevolmente colta, in simbiosi con la musica che sa assecondare metafore e citazioni, rabbie e squarci di luce dolce familiare, malinconie e autobiografismo, pensieri intorno al dolore e alla divinità attraversati con ironia tagliente. Un ascolto piacevolissimo che ridà all’improvviso un senso al segmento della canzone d’autore ora un po’ in disparte, come stanca o intimidita.

Come già Guccini, come Gaber e De Gregori, Roberto si chiama fuori e nei suoi settant’anni canta che s’è stufato del mondo com’è, dei twitter e del porcellum, del vagare inconsistente delle non-idee. S’è anche stufato della stanchezza, e lo racconta in modo fulminante in «Stelle», dove un capitano di lungo corso, navigando, manda a quel paese proprio le luci del cielo che lo hanno guidato tutta la vita. La cultura gli è compagna di vita, la sua donna è «la quarta a destra del Botticelli», le sue donne sono la De Bouvoir e la Luxembourg; si ispira all’Edipo a Colono, a Borges o Montale, ma con leggerezza. Recita con trasporto consumato la stupenda «Ho conosciuto il dolore», parlando dei suoi tumori battuti, della malattia del figlio, e per la dolcissima «Due madri», spiega, si è ispirato a sua figlia e alla di lei compagna: «Hanno provato in tutti i modi ad avere bambini, sono andato anch’io con loro in Olanda, e ora ci sono queste due bimbe bellissime. Ho pensato a tutte le anomalie critiche, ma poi sono convinto che la famiglia sia fondata sull’amore, e all’uguaglianza dei diritti quando arriverà».

Evocando la copertina del disco, l’artista si racconta in una palestra milanese, seduto al bordo di un ring dove la lotta è solo con le idee. Capelli corti, ringalluzzito, seduto con le gambe penzoloni sembra per un’ora il professore che è sempre stato. Difficile infilarsi nel flusso fascinoso del suo racconto, con lui è sempre così: preferisce parlare, è la sua materia. «Ho scelto il ring come simbolo, ma non ci sono pugilatori qui, ci sono libri quadri oggetti di valore eterno per un momento di grande riflessione». Dice di non appartenere, per esempio, al delirio digitale: «Nel mondo moderno sono un Chaplin marcito che ha come riparo l’umanesimo, non riesco a capire come termini come onestà o giustizia riescano a mostrarsi». I twittaroli, spiega, lo hanno massacrato quando è uscita la notizia della nomination al Nobel: «Non vincerò, ma per me il premio è già la segnalazione. Un Paese dovrebbe essere contento, fossi stato io o Guccini o De Gregori. In Francia sarebbe stata gloria, qui solo improperi che mi hanno anche fatto male».

Marinella Venegoni

www.lastampa.it

Roberto Vecchioni - Sei nel mio cuore