MUSICA




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​​​​​​​Parliamo dei nostri gusti musicali
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MUSICA
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Cari Muse, date retta alla vostra "2nd Law": La crescita senza fine è insostenibile



Se debbo dirla tutta, alla fine questi Muse gigantistici non riescono più ad accendermi. Niente da dire su tutto l'ambaradan e la sua maestosità, ma mi sembra un'impostazione non adatta per il loro tipo di musica, che era più in agio nelle arene e che si fa condizionare su disco dalla destinazione stadio.

È comunque questo che segue è il mio articolo uscito sul cartaceo dopo la prima all'Olimpico di Torino

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Una sequenza di fuochi e scoppiettii da lasciare senza fiato, e con il falsetto assassino di Matt Bellamy siamo subito immersi nell’atmosfera angosciosa di «Supremacy», primo pezzo dell’ultimo album «The 2nd Law». E non è che ci si rallegri molto: «La grandezza muore, ignorata e perduta/ invisibile alla storia/ Spie ben inserite che fanno il lavaggio del cervello/ ai nostri figli affinché siano meschini». Suoni tonitruanti si rincorreranno per tutto il concerto del debutto italiano dei Muse, persi come piccoli puntini dentro l’immensità di un palco il cui sfondo immenso ricorda una radio d’epoca, con megaschermo sull’amplificatore.

Giochi grafici, onde sonore, luci bellissime, fuochi e fuochi e fuochi, evocano non solo un gustaccio americano che si è impadronito pure dell’Europa, ma anche la fibrillazione della nostra vita quotidiana, ricordando appunto quella legge della termodinamica cui si ispira l’album: quella che dice che non si può sostenere un’economia basata sulla crescita senza fine.

I Muse faranno alla fine un pienone di 70 mila persone nelle due sere torinesi, a 35 mila a botta (anche se ieri nel pomeriggio si registrava su Facebook un movimento di vendita al ribasso per il prato); ma se si aggiungono i probabili 50 mila biglietti venduti all’Olimpico di Roma per sabato prossimo, siamo di fronte a un segno tangibile di popolarità di massa per i tre ex compagni di scuola del Devon tutti emotività e passione. Anzi, mettiamola così: fra le due band-idoli da stadio più recenti, i Coldplay sono destinati a coloro che non si vogliono turbare troppo, mentre i Muse fanno il pieno con fans che non riescono a staccare il cervello dalle inquietudini che travagliano la contemporaneità, alla quale essi donano una colonna sonora all’altezza di tutti i guai nei quali siamo immersi.

A decibel spiegati, dopo la provvidenziale delibera della Giunta Comunale che ne ha innalzato i livelli qui sul palco dello stadio Olimpico all’ultimo minuto (avendo Vasco Rossi già consumato tutta la scorta permessa nelle sue 4 serate) il loro sound si conferma astutamente percorso dalle suggestioni musicali che vanno oggi per la maggiore: un cocktail che mescola pesanti echi di prog, schitarrate epiche, rock classico, elettropop e improvvise spruzzate di Chopin, non disdicevoli come base all’espressività vocale tutta sturm und drang di Matt Bellamy.

Il leader del trio è un furetto simpatico e bruttarello che piace moltissimo alle donne per questi sua espressività definitiva sul palco, benissimo supportata dagli altri due soci Dominic Howard alla batteria (gloriosa la sua performance in «Dracula Mountain») e Chris Wolstenholme al basso: quest’ultimo, è impegnato ormai a tratti pure lui come autore e interprete ma la palma resta per ora tutta di Matt, per le sue peregrinazioni ispirate fra chitarra e tastiera, per le passeggiate lungo la passerella che porta all’inevitabile palchetto a rombo fra la folla, dove si svolge spesso una sorta di sceneggiata rock che tiene fede al plot di «The 2nd Law».

Ecco il banchiere con le tasche piene di euro (il cattivo della nostra epoca) colpito e affondato in una buca provvidenziale nel tifo generale, durante «Animals» (un pezzo che in realtà richiederebbe uno spazio più raccolto ma tant’è). Ed ecco, più tardi, la contorsionista bionda appesa a una immensa lampadina librata in volo durante «Blackout», vecchia e ancora ottimistica canzone nella quale i Muse sostenevano che la vita è troppo corta.

Ci sono cavalcate sonore che lasciano senza fiato. E ci sono poi momenti più disinvolti e per così dire allegri come la cover di «Feeling Good» che fa appunto abbandonare le ambasce, o il punk furibondo di «Liquid State», e la ripresa dell’inquietudine in «Madness» o «Stockholm Syndrome».

Assolutamente un superspettacolo, al termine del quale ci si chiede inevitabilmente dove vogliano arrivare i Muse, adesso. «The 2nd Law» imporrebbe per il futuro un ulteriore sforzo concettuale messianico, con conseguente tour ancora più gigantesco: ma più di così non si crede si possa fare. E allora? Forse la risposta sta proprio nella seconda legge di cui ci siamo occupati: non si può sostenere un rock basato su una crescita senza fine, potrebbe pensare la stessa band. Nell’attesa non priva di curiosità, trionfo e buon proseguimento di tour.


Marinella Venegoni

www.lastampa.it

Muse 'Supremacy' | BRITs 2013 I OFFICIAL HD