MUSICA




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Paolo Conte: "Piano, pentagramma, matita e gomma: fatica e goduria che pochi ormai conoscono"


Amatissimo Paolo Conte, quello del 29 aprile al Regio sarà il suo unico concerto italiano in questo 2013. Una scelta? Un caso? Un segno della crisi che travaglia l’Italia, dove si esce di meno per ascoltare musica?

«Francamente non avrei problemi a tenere concerti in Italia, il mio pubblico è sempre pronto. Però devo ottemperare agli impegni con teatri stranieri e dunque ho deciso di fare una cosa alla volta».

Con il suo concerto torinese, ha aderito a una causa, la costruzione di un ospedale ad Haiti a cura dei padri camilliani. La musica popolare abbraccia sempre più spesso tematiche di impegno sociale: lei è spesso invitato? Che pensa del fenomeno?

«A dirla tutta non ci vedo nessun fenomeno, almeno per quanto mi riguarda. Direi semplicemente che se si può fare del bene dando un po’ delle proprie energie si fa onore a se stessi. Del resto ho fatto in vita mia tantissimi concerti a scopi benefici, per non parlare della beneficenza che Egle ed io facciamo direttamente di tasca nostra».

A proposito di concertoni. Elio e le Storie Tese hanno appena inciso una canzone che si fa beffe della kermesse del Primo Maggio, con le sue liturgie prefissate. Cosa ne pensa? E cosa pensa della loro «Canzone mononota» sanremese, che prende in giro stilemi e trucchi della scrittura delle canzoni?

«Ho sempre stimato molto Elio e le Storie Tese per la musicalità e la vocalità. Non conosco tuttavia le canzoni di cui mi parla e non posso commentarle».

Per lungo tempo, nella prima parte della carriera, lei ha scritto canzoni ironiche, quadretti che tracciavano meravigliosamente personaggi di provincia. Com’è cambiata la provincia italiana, dal suo angolo privilegiato di osservazione? Può essere ancora motivo di ispirazione?

«Tutto cambia, anche la provincia, soprattutto nel linguaggio. Ma già all’epoca delle mie prime canzoni c’erano le case costruite dai geometri che facevano sbandare il paesaggio. Tuttavia la provincia (e soprattutto la campagna) cantava la sua anima antica, primitiva e goldoniana insieme».

E’ appena stata celebrata anche in musica la Giornata Mondiale della Terra. Condivide le cause ecologiste, lei che vive in modo bucolico tra i vigneti? C’è un filone che la appassiona di più?

«Partiamo pure dalle vigne: se oggi fai parlare un giovane tastevin uscito dalle università enologiche, ti riempirà la testa di goudron e retrogusto di viola mammola, mandorle e cuoio, ma non potrà sapere cos’era il vino scomparso prima della sua nascita (erbicidi? industria?) né si accorgerà che tutto il vino rosso oggi somiglia al cabernet sauvignon. Senza vino si può magari campare, ma cosa dire del degrado della natura che viene perpetrato sistematicamente? Speriamo che gli Ufo abbiano più rispetto».

Il jazz, la sua passione di sempre, si muove lentamente nel suo spazio di nicchia. Vede emergere linee interessanti? E’ ancora per lei fonte di ispirazione?

«Per il jazz i tempi di nicchia sono comunque passati da un bel po’ di tempo. Diciamo piuttosto che si vede poca creatività all’orizzonte. Se parliamo di jazz classico (che esiste solo sui dischi) più che ispirazione le direi adorazione».

La musica cede sempre più alla forza fascinante della tecnologia, sostituisce la creatività con la modulistica. Quali spazi residui trova un autore autoriale? O come può un autore battere un computer?

«Pochi ormai sanno la fatica e la goduria nell’usare un pianoforte, un pentagramma, una matita e una gomma. Del resto, le risposte alle sue domande in quest’intervista le sto proprio scrivendo a mano».

Che uso fa del computer e della rete?

«Non ne faccio niente perché non ne so niente. Pigrizia? No?».

Quale letteratura, o poesia, stanno in questi tempi a portata di mano nel suo scaffale?

«Ho appena letto un fantastico Camilleri, mezzo in siciliano e mezzo in spagnolo. E poi non sono male questi scandinavi, che non ti lasciano niente ma sono molto ben fatti».

Se le musica è espressione del suo tempo, dove sta il filo di rottura che pare premere da sotto il nostro tempo standardizzato?

«Che la musica sia espressione del suo tempo non è cosa sicura. E’ la storia che, a posteriori, opera questa dislocazione. Il filo di rottura di cui mi parla va cercato, e trovato, nel disco L.P., cioè a lunga durata, che continua a permettere ripetizione e sbrodolature quando ormai la fine del sinfonismo era stata decretata da tempo».

Che cosa pensa della rielezione di Napolitano e dei tumulti che attraversano questa stagione politica?

«Come ben sa, di politica non ci capisco niente, né mi illudo di capirne qualcosa».

Marinella Venegoni
www.lastampa.it