MUSICA




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Addio a Enzo Jannacci, il medico-artista - Le canzoni surreali, il jazz, il piano, i film...




Adesso che la situazione è davvero surreale, lui avrebbe saputo trovare le parole per cantarla. Ma Enzo Jannacci aveva perso la forza e l’energia, ed era tormentato da anni da terribili mal di schiena; ieri sera, dopo lunghe sofferenze, se n’è andato. Avrebbe compiuto 78 anni a giugno, era un esemplare raro di duttilità: medico mai ritirato dalla professione, cardiologo che aveva sperimentato in Sudafrica con il pioniere dei trapianti Barnard, era un osservatore acuto della realtà, che guardava con occhi d’artista. Mescolava senza traumi le sofferenze umane e il cabaret, il teatro, la scrittura di canzoni; teneva concerti sopraffini di musica rigorosa condita da infiniti non-sense, che erano il suo vero piatto forte. Con una vena di disperata malinconia in ritmo, e di pietà per i suoi consimili, sapeva cantare i perdenti con pochi tratti, senza rinunciare ad un lampo umoristico. Ha scritto canzoni che hanno segnato il nostro immaginario, e sono diventate modi di dire. Per tutte: «Vengo anch’io no tu no», canto disperato di un emarginato, letto per lo più in tutt’altra chiave.
Nell’ultimo decennio, il suo mal di schiena gli aveva fatto diradare parecchio gli impegni live, dov’era ormai sempre accompagnato dal figlio Paolo, pianista provetto. Ma il disagio fisico non gli aveva impedito di continuare a curare il suo sterminato repertorio: nel 2005 era uscita una curatissima e stravagante raccolta, «Milano 3-6-2005», che era la data dei suoi 70 anni e un atto d’amore alla sua città, un compendio di 40 anni di canzoni in dialetto. Lo avevo incontrato in uno studio di registrazione. Era novembre, e Enzo era senza calze sotto le scarpe da tennis nere. Sei così sportivo? Gli avevo chiesto, e lui: «Non riesco a piegarmi. La mattina quando mi vesto mi appoggio alla porta del bagno con il calzino in mano e provo 2 o 3 volte a infilarlo. Ma se il terzo tentativo non va a buon fine, lascio perdere ed esco senza».

Che tempra d’uomo e d’artista è stato, Enzo Jannacci. Non solo si era laureato e specializzato, ma aveva frequentato per otto anni il Conservatorio nella sua Milano. Due amori paralleli. Con la musica aveva cominciato nei ‘50 alla scuola di Santa Tecla, dove suonò il pianoforte nella band di Tony Dallara prima e di Celentano poi. Ma la svolta fu l’incontro con Giorgio Gaber, con cui formò «I due Corsari» e nacque la celeberrima «Fetta di limone»: si era in piena scoperta del rock’n’roll, c’era una libertà espressiva che avrebbe forgiato grandi talenti. Ma Jannacci frequentò nello stesso tempo anche il mondo del jazz, accanto a numeri uno come Gerry Mulligan e Chet Backer.

La sua vena naturalmente surreale lo aveva posto in primo piano negli spettacoli di cabaret che allora andavano fortissimo. Si può dire che Jannacci è il padre italiano del genere demenziale, che certo a lui si ispirò agli esordi. Le sue prime canzoni si chiamavano «L’ombrello di mio fratello» o «Il cane con i capelli»; poi arrivarono i grandi successi come «Vengo anch’io», «l’Armando», «Scarp del Tenis», la dolorosa «Vincenzina davanti alla fabbrica»; «Ho visto un re» in duetto con Dario Fo, piena di sottintesi politici, fu una delle colonne sonore del ‘68. Mi confessò: «Mi aveva chiamato all’epoca Zavattini, e mi aveva detto: "Le sue canzoni sono dei film"». Andava orgoglioso ma la prendeva bassa. Era troppo intelligente.

Esperienze televisive, partecipazione a film di Monicelli e Ferreri, pièces teatrali in collaborazione con Cochi e Renato e non solo, il successo di «Messico e Nuvole» di Paolo Conte, apparizioni a Sanremo con «La fotografia» e con «Se me lo dicevi prima», completano il quadro di un artista unico, che l’Italia non ha saputo forse apprezzare fino in fondo.

Marinella Venegoni
www.lastampa.it

Enzo Jannacci - Mexico e Nuvole

Enzo Jannacci - Mexico e Nuvole