MUSICA




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Piovani, un gioiellino di disco di canzoni - ("Non mi sento portato, altri fanno milioni")



«Cantabile» è un cantabilissimo gioiellino, un album in uscita in questi giorni che è anche una specie di opera prima del premio Oscar Nicola Piovani. Mai infatti il maestro, che naviga in tutt’altri lidi, aveva pensato di raccogliere le sue canzoni. Sono piccole perle - alcune famosissime come «Quanto t’ho amato», che conosciamo dalla voce di Benigni - nate per il teatro, per il cinema o per caso. Con testi dello stesso Piovani, di Benigni (che qui riscrive e canta il testo del tema di «La vita è bella»), di Cerami, del Pirandello di «Liolà» (cui dà voce in romanza il tenore Vittorio Grigolo), «Cantabile» evita il rischio della compilation di lusso perché l’autore lo ha spezzato con intermezzi strumentali: «Un filo conduttore per rendere meno brusco il salto stilistico fra le canzoni». Ma non sono solo il Quartetto d’archi della Scala, o Sollima, o lo stesso Piovani al pianoforte, a tessere il filo dell’eleganza eterea, fra romanticismo sottile e punte di spirito cabarettistico, che permea i brani affidati a voci celeberrime e amate: voci da autore, come Giorgia e Peppe Servillo; e Francesco De Gregori in una «Alla fine della storia» che potrebbe essere sua; e Gianni Morandi e Noa sorprendenti in «Quanto t’ho amato»; e Fiorella Mannoia e Tosca con la tromba di Fabrizio Bosso. Poi una Giusy Ferreri che non ci si aspetterebbe, un pimpante Jovanotti, Gigi Proietti divertente e attorale. Un’opera prima da numero uno.

Maestro Piovani, come mai?

«Perché l’uscita di un disco così mi fa piacere. E’ un fuori sacco, un fuori regola. Non mi sono mai direttamente cimentato con la canzone, anche perché la ritengo un genere molto difficile: una canzone si può scrivere in 3 minuti, uno Stabat Mater no. Ma se per te ha una ragione, è complicata: c’è l’obbligo della sintesi, il dovere lessicale, l’obbligo della cantabilità che porta sempre l’eccesso di semplificazione. Quindi non mi piace fare le canzoni come un tempo facevano musicisti e poeti, che producevano cose interessanti, ma sempre con uno stampo, non immediate. La Sony mi aveva proposto l’idea, io ho traccheggiato. Poi ci ho pensato, e mi hanno accettato gli intermezzi strumentali, ma io ancora non avevo coinvolto tanti artisti».

Come li ha scelti?

«Per ogni tassello ho pensato a una voce. La macchia di Gasparì non poteva che essere Proietti. Jovanotti? Stavo facendo una Cantata sinfonica su testo di Eduardo a Milano, sapevo che lui era in città. L’ho chiamato perché sapevo che "Quando verrà" era perfetta per lui: dopo mezz’ora è arrivato in bicicletta. La reciprocità dell’entusiasmo mi ha permesso di lavorare con sincerità e gioia non comuni nella musica leggera; per questo del resto mi son sempre mantenuto lontano».

Sono curiose, fra le tante, le scelte di Giusy Ferreri e Morandi.

«Ha ragione. Hanno origini diverse. La Ferreri mi è stata proposta dalla Sony, di cui conoscevo il nome. Ho visto che è palermitana, e il suo tipo di timbro ricordava certa Rosa Balistreri: è stata meravigliosa, tuffata in una cantabilità diversa. Ero partito titubante, sono uscito entusiasta. In quanto a Morandi, in un primo momento non volevo mettere nell’album la canzone de "La Vita è Bella" e "Quanto t’ho amato", poi De Gregori mi ha fatto notare che sarebbe stato un gesto molto snob. Ha colpito giusto. Su "Quanto t’ho amato" avevo già scelto la versione con Noa che avevo sentito a Tel Aviv, di grande forza comunicativa, ma poiché nel ‘95 era nata per lo spettacolo di Benigni cercando un calco di canzoni sentimentali, quale cantante più di Morandi può dare l’immediatezza, agli antipodi di Noa?».

Lei era stato tentato dalla canzone d’autore 40 anni fa. Con De André furono dischi indimenticabili come "Non al denaro" e "Storia di un impiegato". Perché ha lasciato perdere, poi?

«Ho sempre scritto canzoni occasionali, quando servivano, in funzione di. Smettemmo con De André proprio perché le strade si allontanavano, ero attratto dall’orchestra sinfonica, dai colori strumentali, da forme che non fossero di 3 minuti. E nello stesso tempo Fabrizio, che è sempre stato un ricercatore, non ha mai fatto lo stesso disco, aveva sempre bisogno di prendere un’altra cattiva strada, e io la mia».

Presidente della Giuria di Qualità di Sanremo. Un trauma?

«Ho ascoltato per 15 giorni tutte le canzoni. C’erano voci straordinarie, con un orizzonte più ampio di quel che stavano cantando. Il mercato dà molto, ma molto sottrae: l’offerta è talmente tanta, che una cosa buona si può non avvertire».

Nel suo prologo scrive che la canzone è un genere difficilissimo. Perché è così affollato, allora?

«Nel ‘900 è diventata una forma di altissimo investimento industriale, quelle azzeccate hanno fatto guadagnare milioni di milioni: su cento che se ne scrivono, una è per passione, 99 per imitare un successo precedente. Gli autori vengono castrati o si autocastrano per paura di uscire da generi e convenzioni».


Marinella Venegoni

www.lastampa.it