MUSICA




​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​
​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​
​​​​​​​​​​​​​​
​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​
​​​​​​​​​​​​​



​​​​​​​Parliamo dei nostri gusti musicali
​​​​​​​

​​​



MUSICA
Start a New Topic 
Author
Comment
10 anni senza Giorgio Gaber: il ricordo e lo speciale di Rockol



Non ho un ricordo preciso del mio primo incontro con Giorgio Gaber. Fu da spettatore televisivo, sicuramente: da piccolo spettatore televisivo, che poteva guardare la TV solo il sabato sera. Perché correva, quasi sicuramente, l’anno 1961, quando lo vidi, in bianco e nero, cantare “La ballata del Cerutti” in qualche varietà del Primo Canale (che allora non si chiamava Primo, perché c’era solo una rete televisiva).

Riemergono nella memoria un sorriso sghembo e alcune parole “da grandi” - “Giambellino”, “pantera”, “madama”, “terzo raggio” - di cui chiesi conto a mio papà. Le mie buone letture dell’epoca facevano sì che io già conoscessi il significato di un’altra parola difficile, “fervorino” - ma di questo ho già scritto altrove.

Quel Gaber così milanese - a Milano ci andavo, a volte, a trovare mio papà che ci lavorava - mi piaceva, e lo ritrovai negli anni immediatamente seguenti in altre canzoni: “Trani a gogo”, ovvero “si passa la sera scolando barbera” - mi rimase in testa uno dei personaggi che popolavano la canzone, “Il tipo che in pista non sbaglia mai un passo”; “Porta Romana”, “La Balilla”. Scoprii, sempre dalla scatola delle immagini che troneggiava in salotto, che c’era anche un altro Giorgio Gaber: uno che cantava canzoni delicate e un po’ malinconiche, che mi colpivano anche se allora non capivo il perché (“Non arrossire”, “Le nostre serate”, “Pieni di sonno”).

E poi arrivò il Festival di Sanremo del 1966. Gaber c’era già stato prima, a Sanremo: nel 1961, con “Benzina e cerini”, ma aveva cantato di venerdì, giorno in cui la televisione mi era vietata perché il sabato s’andava a scuola, ed era stato eliminato - quindi non l’avevo visto e sentito; e nel 1964, con “Così felice”, ma anche quella volta non era andato in finale, e io che avevo potuto guardare solo quella me l’ero perso. Nel 1966, invece, la canzone di Gaber e Pat Boone (doppia esecuzione, anche quell’anno, un cantante italiano e uno straniero) andò in finale: però “Mai, mai, mai (Valentina)” era una canzone abbastanza anomala rispetto al Gaber che conoscevo io, e non ne rimasi colpito. Mi colpì invece, l’anno dopo, una canzone strana, molto romantica ma non melensa, dalla struttura inusuale: “Al bar del Corso” (“alle ore tredici del giorno sedici del mese scorso al bar del Corso se c’eravate avrete visto...”). Mi rimase in mente per un po’, poi la dimenticai. Avrei scoperto più tardi che l’aveva scritta Herbert Pagani con Gianfranco Lombardi. Avrei scoperto anche che sullo stesso 45 giri, sull’altra facciata, c’era una canzone molto importante nell’itinerario artistico di Giorgio Gaber: “Suona chitarra”, una musica di Federico Monti Arduini (non ancora Guardiano del Faro) il cui testo, di Gaber, raccontava il disagio dell’artista costretto a cantare canzoni disimpegnate per non perdere l’apprezzamento del grande pubblico. Verrà usata tre anni dopo come prologo di “Il signor G”: ma ne riparlerò più avanti.

Nel 1967 Gaber aveva partecipato di nuovo a Sanremo con una canzone scritta con Franco Battiato: “E allora dai”, una canzone di (ironica) non-protesta che iniziava con un parlato che enunciava: “Questa è una canzone di protesta che non protesta contro nessuno... anzi... siamo tutti d'accordo...”. Quell’anno pubblicò anche “Snoopy contro il Barone Rosso”, cover italiana di un successino inglese dei Royal Scotsmen. L’anno dopo, e ormai io ne avevo 15, di anni, la sua “Goganga” mi parve buffa ma superflua, come la sua “Torpedo blu” mi parve graziosa ma troppo “alla moda”, troppo sull’onda del revival degli anni Venti innescato dalla New Vaudeville Band con “Winchester Cathedral” (eh già: cominciavo a tirarmela da competente, ad ascoltare anche i dischi inglesi). Insomma: Gaber lo stavo perdendo, me lo stavo dimenticando. Stavo diventando un adolescente che voleva apparire adulto.

Anche Gaber stava cambiando, ma io non lo sapevo. Quell’anno, quel 1968, Gaber era in mezzo al guado. Aveva pubblicato per la Vedette “Sai com’è”, forse il suo disco più “commerciale” (“Sai com’è, no com’è”, “Teresa perdonami”, “Ritratto di Anna”, “Torpedo blu”, “Ma pensa te”, “Pomeriggio”, “La pum-pum rumba”, “Il truccamotori”, “Zeppelin De Rossi”, “Goganga”, “La Balilla”, “C’era una volta il Clan”) ma aveva anche fatto anche uscire, per la Ri-Fi, “L’asse di equilibrio”. Arrangiato da Giorgio Casellato, l’album conteneva tre brani scritti da Gaber con Herbert Pagani (“Una canzone come nasce”, “L’asse di equilibrio” e “La vita dell’uomo”): “Canta” di Herbert Pagani e Tony De Vita; due canzoni firmate da Gaber con Federico Monti Arduini (“Parole parole” e “Suona chitarra”) e sei firmate interamente dal loro interprete: “Un uomo che dal monte”, “L’orologio”, “La Chiesa si rinnova” (in effetti composta insieme a Franco Battiato), “Eppure sembra un uomo”, “Immagini”, “La corsa”. Disse Giorgio Gaber a “Sorrisi e Canzoni” (come riporta Sandro Neri nel suo bel libro “Gaber. La vita, le canzoni, il teatro”, Giunti, 2008): “Il disco è una specie di confessione, di esposizione sincera di quello che penso. Si intitola ‘L’asse di equilibrio’ perché io sono veramente in pericolosa sospensione in quanto presento canzoni molto ‘pericolose’ per il gusto della gente abituata alle canzoni ‘normali’”.
Qualche esempio? Da “La vita dell’uomo”: “Se tu sei un uomo la strada è una sola, è quella che s’arrampica sul monte; nessuno ti guida, nessuno ti aiuta, da solo ti asciughi la fronte. Più sali e più soffri, più sali e più sembra lontana la cima del monte...”. Da “La Chiesa si rinnova”: “...chi vuol restare a galla si deva aggiornare; anche la Chiesa vuol sempre far meglio, ogni tanto si riunisce per fare un Concilio... si parla del divorzio senza falsi segreti, di dare il matrimonio anche ai poveri preti; si parla della pillola e di altre cose affini perché la gente al mondo fa troppi bambini... e si è stabilito dopo mille discussioni che il prete, essendo uomo, può portare i pantaloni; e se al venerdì mangiare il pese ti secca, non fare complimenti, puoi farti una bistecca. Ed oggi, a causa di una recente intervista, tutti dicono che il Papa è diventato comunista. E la Chiesa si rinnova per la nuova società, e la Chiesa si rinnova per salvar l’umanità!”. Da “Eppure sembra un uomo”: “Sul muro c’era scritto: ‘Alzateci il salario’, l’ha cancellato un grande cartellone con scritto ‘Costa meno il mio sapone’. Oggi nel mondo si lotta per dare benessere a tutti, ma facilmente prima di accordarsi avranno già finito di ammazzarsi”. Da “Immagini”: “Una scuola, una grande scuola, piena di gente analfabeta, dove si insegnano cose sbagliate, dove i più furbi riescono meglio e i disonesti sono premiati... Una chiesa, una grande chiesa, piena di fregi in oro zecchino, dove una folla misera e triste inginocchiata prega qualcuno che non la sente, o che non esiste...”.

E nella rivelatrice “Suona chitarra”, quasi una confessione: “Se potessi cantare davvero canterei veramente per tutti, canterei le gioie ed i lutti, e il mio canto sarebbe sincero. Ma se canto così io non piaccio, devo fare per forza il pagliaccio... e allora, suona chitarra, facci divertire, suona chitarra, non farci mai pensare al buio, alla paura, al dubbio, alla censura, agli scandali, alla fame, all’uomo come un cane schiacciato e calpestato...”. Ecco, in “L’asse di equilibrio” c’erano già, e non solo in nuce, i temi e i toni che dal 1970 impronteranno i recital del “Signor G”.
Ma io ancora non comperavo i 33 giri. Di Gaber, quell’anno, comprai però tre 45 giri. Uno era “Il Riccardo”, l’altro “Barbera e champagne”, il terzo “Com’è bella la città”.

“Il Riccardo”, scritta con Umberto Simonetta, e “Barbera e champagne”, scritta con Sandro Luporini, sono due bozzetti milanesi per certi versi simili a “La ballata del Cerutti”. L’ambientazione è quella: le sale da biliardo e i bar della “vecchia Milano”. Ma se la prima è una divertente quanto acuta galleria di personaggi buffi, di macchiette, la seconda è uno spaccato di vita: due uomini soli nello stesso bar, diversi per ceto e censo - l’uno beve barbera, l’altro champagne - ma accomunati dalla sofferenza d’amore, si conoscono, familiarizzano, discutono di politica e di calcio, quasi litigano, si riappacificano ballando cameratescamente un tango, finiscono buttati fuori dal bar e si salutano quasi da amici (“Giusto però vorrei vederla ancora / io sono direttore all'Onestà, / molto piacere, vede, io per ora / sono disoccupato, ma chissà...”). Ci sono complice comprensione e sorridente amarezza nel testo, sorretto da una musica intelligentemente popolaresca, che racconta la breve storia di una solidarietà maschile ed alcolica (Enzo Iacchetti nel suo recente album “Chiedo scusa al signor Gaber” l’ha snaturato imperdonabilmente trasformando uno dei due protagonisti in una donna).

Due anni prima Gaber aveva confezionato una divertita replica a “Il ragazzo della via Gluck” di Adriano Celentano intitolata “La risposta al ragazzo della via Gluck”, tragicomica storia di un giovanotto lasciato dalla fidanzata alla vigilia delle nozze perché il bilocale in cui pensava di vivere dopo averla sposata viene abbattuta “per una legge del Piano Verde” (“quel palazzo un po’ malandato va demolito per farci un prato”). “Com’è bella la città” è invece, nel testo, un peana alla vita metropolitana (“vieni, vieni in città, che stai a fare in campagna? se tu vuoi farti una vita devi venire in città”). E il testo, scritto con Sandro Luporini, si ripete sempre uguale per tre volte. Quel che cambia è l’intenzione, l’intonazione, l’espressione con cui Gaber lo canta: prima convinta e convincente, poi perplessa e interrogativa, poi ancora desolata e stranita, fino a un finale accelerato, isterico, velocizzato (sul modello di “La valse à mille temps” di Jacques Brel) che svela il senso della canzone: un’accusa all’alienazione urbana.
Questo è il penultimo 45 giri di Gaber che ho comprato; l’ultimo è stato l’amarissimo “Oh Madonnina dei dolori”, una canzone sulla fine dell’amore e del matrimonio, sulle separazioni e sui padri impossibilitati a frequentare i propri figli (il testo del 45 giri è diverso da quello, in chiave rispettosamente blasfema, poi cantato in teatro). Quello stesso anno andai a teatro - al Teatro Grande di Brescia - ad assistere a una replica di “Il signor G”, lo spettacolo con il quale Gaber inaugurò la sua stagione del teatro-canzone. Li ho poi visti quasi tutti, quegli spettacoli, in cui Gaber e Sandro Luporini (il 2 gennaio 2013 esce il libro in cui Luporini racconta il suo sodalizio professionale con Gaber: sono ansiosissimo di leggerlo) hanno tracciato, in coppia, un itinerario inimitabile, e purtroppo spesso recentemente imitato (con scarsi risultati). E siccome sono certo che, in ricordo di Gaber scomparso dieci anni fa, si parlerà soprattutto del secondo Gaber, quello post-1970, al Gaber degli anni prima del 1970 ho voluto riservare queste mie considerazioni. Giusto perché non ci si dimentichi che Giorgio Gaber è stato, anche, quello che vi ho raccontato.


Franco Zanetti

http://www.rockol.it/news-453740/10-anni-senza-Giorgio-Gaber-il-ricordo-e-lo-speciale-di-Rockol

Far finta di essere sani (Giorgio Gaber, Far finta di essere sani, 1973)

Far finta di essere sani (Giorgio Gaber, Far finta di essere sani, 1973)