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Enzo Jannacci, la mia vita «su e giù dal tram»

Enzo Jannacci, la mia vita «su e giù dal tram»

Rogoredo, il Forlanini, i barboni e gli operai. Nelle sue canzoni, il racconto di una Milano che non ti aspetti
francesco mattana e linda stroppa (magzine)

Gli occhiali a tratti gli scivolano sulla punta del naso. Dietro, due occhi piccoli piccoli che sembrano sempre ridere. Non diresti mai che quegli occhi, un po’ schiacciati tra le palpebre, dietro le lenti spesse, hanno visto così tanto. Osservato e scrutato di tutto: volti, incontri, espressioni. Ma anche tram, stazioni, marciapiedi. Abbuffate di vita quotidiana catturate in uno sguardo e trasformate in spartiti. Enzo Jannacci è anche questo. Settantasette anni e un po’ di acciacchi, mesi passati a visitare pazienti, ma soprattutto a suonare e cantare canzoni. Che parlano di gente comune, di fatti mescolati nella memoria con la fantasia.

Giovanni telegrafista, Faceva il palo, Prendeva il treno, Il panettiere… Jannacci racconta le sue storie per raccontare la vita. La sua Milano di bambino, con un padre aviatore che «voleva diventassi medico per imparare che cos’è la sofferenza» e la sera descriveva la sopravvivenza all’aeroporto Forlanini, la stessa dipinta in El portava i scarp del tenis. Una Milano differente dagli stereotipi, una periferia popolata da perdenti, personaggi pittoreschi che non riuscivano a correre alla stessa velocità della metropoli. Il tutto condito con quella vena ironica che ha fatto di Jannacci un caposcuola del cabaret.

Il figlio Paolo, che pure lo conosce più di chiunque altro - e che nel libro Aspettando al semaforo (Mondadori), ne ha raccontato opere e “miracoli” - lo osserva ogni volta con stupore: «Il pubblico lo ama, anche quando non lo capisce. Enzo (nel libro il figlio lo chiama per nome, ndr) è un battitore libero. Nei suoi discorsi c’è profondità, che emerge dal filtro delle sue caratteristiche umane e recitative. Una volta, durante un concerto, un tizio gli gridò: “Siamo venuti qui per ascoltare musica”. Allora io per stare al gioco ho attaccato una polka. L’uomo restò di sasso, mentre il pubblico lo voleva linciare, a dimostrazione del fatto che chi va a sentire Enzo si diverte a entrare nel suo immaginario». Un mondo fatto di barboni, signorine lascive, innamorati poveri ed eternamente delusi. Come su e giù da un tram, «che è la cosa più bella del mondo».

Le sue canzoni sono così. Parlano. Per ascoltarle, negli anni Sessanta, i milanesi correvano in massa all’Odeon: non volevano perdersi le avventure tragicomiche del barbun con i scarp del tennis; della Veronica, che al Teatro Carcano dava il suo amore per una cifra modica; o del giovanotto tignoso, che nonostante i continui rifiuti della ragazza continuava a fare la posta sotto il suo balcone. Mentre la luna in cielo sembrava una lampadina. «Nel disco Milano 3-6-2005, scritto per i suoi settant’anni, abbiamo ripreso in mano le canzoni in milanese di quei primi tempi. Credo che sia in assoluto il suo disco migliore».

In tanti aspettano un suo ritorno in sala d’incisione e a teatro. «In questo momento non è in condizione di dare il meglio né in studio né sul palco. Ma ho buone speranze. Del resto Enzo è uno che spiazza: chi poteva immaginare di trovarlo, qualche mese fa, al fianco di Fo e Celentano a Palazzo Reale? Non lo sapevo nemmeno io che avrebbe partecipato alla serata». Il desiderio è quello di rivederlo in pattini a rotelle, come nel video di Quelli che...; di incontrarlo al semaforo, mentre lui è in motorino (Enzo non è tipo da automobile. Quella la usava L'Armando, per aprire lo sportello e buttare giù suo fratello). E scambiare quattro chiacchiere surreali su questa Milano che è cambiata, ma neanche tanto: piazza Duomo brilla di luci, che el par d’ess a Natal; i senzatetto esistono ancora, anche se non portano più i scarp del tennis; al Teatro Carcano non si fa più l'amore in pè, lo zoo comunale ha chiuso, ma è sicuro che per un basin della Veronica qualche svitato continua ad arrivare a Como in moto.

Quanta strada nei sandali di Enzo. Con i suoi occhi semichiusi e la sua fantasia continua a vedere cose grandi. A guardare alla realtà con stupore. E il futuro? Sempre ammesso, sempre ammesso che c’è, è una storia che si scrive da sé.



http://www.vocidimilano.it/articolo/lstp/28157/