MUSICA




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​​​​​​​Parliamo dei nostri gusti musicali
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MUSICA
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Il mondo senza Whitney - di Luca Bianchini

Alla fine l’abbiamo applaudita.
E tanto, commossi, come si applaude una bara. Whitney era a Torino nel 2006 per uno dei meravigliosi concerti organizzati per le Olimpiadi. I posti a sedere erano solo su invito e misi da parte tutto il mio orgoglio per averne due (quelle telefonate tremende che uno non vorrebbe mai fare: Ciao, ti ricordi di me?).
Per fortuna trovai due biglietti in extremis e ci portai mio fratello. Era nevicato, o nevicava, per cui c’era quell’incertezza dell’evento fino all’ultimo. Ma l’incertezza dell’evento era legata soprattutto a lei: verrà o non verra? Canterà? Stonerà?
Simona Ventura la presentò con la solita enfasi, ma Whitney non comparve. Aspettammo almeno mezz’ora senza che succedesse nulla. Poi la Ventura tornò di nuovo, cambiò un po’ il discorsetto, fece una battuta (secondo me era incazzata nera) e Whitney era finalmente lì.
Tutta vestita di bianco, bella come Naomi, nella splendida cornice di piazza Castello imbiancata dalla neve. Era lei, ed era tornata. Ma la voce, come tutti immaginavamo, l’aveva lasciata chissà dove. Cantava così male che a un certo punto pensammo di non capirne l’interpretazione jazz. Per cui ci girammo a chiedere conferma a quelli seduti dietro: “Un disastro”, ci dissero.
E così, stoicamente, abbiamo assistito a uno spettacolo pietoso. L’unico acuto perfetto, la “u” finale di “I will always love you”, lo fece una corista.
Ma la cosa davvero emozionante, di quel concerto, fu che alla fine decidemmo di applaudire. Tutti. Incoraggianti. Ci siamo alzati in piedi, a ridosso del palco, e l’abbiamo applaudita forte.
Sapevamo che non l’avremmo più vista, ma tutti volevamo ringraziarla per quelle canzoni che sui dischi suonanavano ancora benissimo. E che ora, forse, torneranno.
Nella morte di Whitney c’è tutta la crudeltà del nostro tempo, e tutto il peggio della mia amata America. Non riesco a capacitarmi che nello stesso Beverly Hotel in cui è morta, pare, annegata nella vasca da bagno in preda ad alcolici e Xanax, si sia celebrata la sera stessa la festa pre-Grammy. E a dare la festa sia stato quel Clive Davis che l’aveva scoperta. “Whitney avrebbe voluto che la musica continuasse”, ha detto in apertura del party, ed è morta lì (da intendere nei due sensi).
E tutti in piedi a piangere poco per paura che che colasse il mascara. Anche se un po’ di occhio lucido piace sempre ai media. Un po’ lucido, ma non fino alle lacrime altrimenti è un disastro.
Anche ai Grammy, stravinti dalla nostra amata Adele (vediamo di preservare almeno lei), se la sono cavata con una bella interpretazione di Jennifer Hudson, e tutti di nuovo commossi spiando con l’occhio chi è seduto vicino a Lady Gaga.
Ai tempi di Twitter, anche la morte accelera i tempi e il cordoglio.
Questo post risulterà oggi già vecchio, datato, ma non importa. Non ce l’ho fatta ieri, a scrivere qualcosa. non ne avevo voglia. Ho messo su un cd, ho rivisto qualche live degli anni 80.
Whitney ha scritto i balli della mia adolescenza, ha accompagnato i miei sogni e anche i miei discorsi alla radio. L’ultimo guizzo artistico l’ha avuto con “My love is your love” (bellissima), in cui cantava tutto qualche ottava più bassa, ma era ancora lei.
Il crack si è mangiato la sua voce.
Ed è morta sola, anche lei, dentro un hotel da 100 stelle.
Sola come sono tanti artisti, ed è stato Twitter a dimostrarcelo ogni giorno, documentandoci le loro merende, le loro facce, le loro esternazioni su qualsiasi cosa. Quelle cazzate sono richieste di attenzione e, forse, di aiuto.
Ma gli artisti li possono aiutare solo pochi amici (che non hanno quasi mai) e i familiari, se non spariscono.
Il padre di Amy era a New York per inseguire il suo sogno di musicista. L’ex di Whitney, Bobby Brown, è salito su un altro palco a poche ore dalla morte.

http://popup.vanityfair.it/2012/02/13/il-mondo-senza-whitney/