MUSICA




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​​​​​​​Parliamo dei nostri gusti musicali
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Whitney 2/ Le due vite della star -Dalla gloria agli abissi con Bobby

Era come un film già scritto. Un film che senz'altro, a breve, qualcuno girerà. Perché niente è più misterioso della tragedia scatenata dai meccanismi della mente umana, e Whitney Houston in quanto a misteri era una campionessa. Come può, una ragazza solare e bellissima che canta il gospel accanto alla mamma nella chiesa evangelica e finisce diva; come può la cugina di Dionne Warwick, la figlioccia di Aretha Franklin, al culmine di una carriera incantata trasformarsi quasi di botto in una tossica impenitente e scatarrante, rauca e senza fiato né più note, maleodorante ed erratica, alla quale nessuno è più in grado di dare una mano? La sceneggiatura del destino, ha voluto che se ne andasse ancora relativamente giovane ma in pieno viale del tramonto, a pochi metri e a poche ore dallo show che il suo scopritore, Clive Davis, dedica ogni anno a festeggiare i grandi e i nuovi talenti nell'imminenza dei premi Grammy. Lei era lì, come sempre, a fingere di voler ancora cantare: perché Clive Davis era stato l'unico a credere di poterla salvare, e tre anni fa era riuscito perfino a farle concludere l'estenuante lavoro per l'ultimo album, «I Look to You», che avrebbe potuto almeno arginare la singolare deriva di questa drop out di lusso, se solo lei fosse riuscita a tenere dritta la barra della propria depressione. Non c'era stato verso, in realtà: da mesi, dopo la conclusione di un tour problematico, malinconicamente passato anche per Milano, circolavano nell'ambiente voci che Whitney fosse ricaduta nei propri viziettacci; era tornata a sparire dalle scene, la vedevano in giro di sera molto mal ridotta: anche qualche giorno fa, in un'uscita con la figlia Bobby Christina che ha ormai 18 anni, sembrava in stato precario. La strada verso la tragedia era stata lastricata con cura. Vengono in mente le voci che sempre l'hanno circondata, di quel suo preferire relazioni femminili, e delle pressioni invece della famiglia perché si sposasse e cominciasse una vita «normale» per gli standard della sua comunità; si sentiva dire che alla fine le fosse stato fatto cadere nel piatto, nel 1989, Bobby Brown giovanotto non irreprensibile poi marito dal ‘92: è lui a esser indicato spesso come l'artefice della discesa agli inferi della droga; è certo lui a scardinare le regole di una mente fino a quel momento serena, finché lei decide di scendere nell'agone di una lotta psicologica alla quale dovrà soccombere. La festa dei Premi Grammy, in scena ieri notte a Los Angeles, è stata fortemente modificata per poter rendere omaggio alla Houston. Perché sì, Whitney è stata una numero uno, una delle cinque grandi voci degli ultimi 50 anni, la più gran venditrice donna di dischi del ‘900 (170 milioni di copie); di Grammy - il sogno di ogni artista - ne aveva vinti sei, nella sua carriera che è stata come di due vite differenti, e di due diversi personaggi: tanto che i più giovani saranno ora costretti a riscoprirne l'essenza originaria di gioventù, quella serenità, quella facilità oltraggiosa con la quale la sua gola di soprano modulava in pop note inarrivabili agli umani e a ogni sua collega. Carriera iniziata nell'85 con l'album «Whitney Houston» e pezzi come «Saving All My Love for You», e quella «All at Once» che cantò a Sanremo nell'87, abbandonando a terra il microfono. Stupiva. Il virtuosismo era irreale. Non forzava, sorrideva ed era bella anche mentre cantava: era riuscita, con la sua umiltà elegante, a diventare la prima diva nera, «pop diva» autenticamente popolare, sulla scia del successo di Michael Jackson. Anche il cinema la tentò (una sua pellicola deve uscire quest'anno) con «The Bodyguard», un successo pazzesco accanto a Kevin Costner, dove cantava «I Will Always Love You» che vendette poi 12 milioni di copie. Certo, ogni vero appassionato di musica notava che quei pezzi erano cuciti insieme non per emozionare, ma per stupire: e lei stava nel canone, docile. Non soffriva. Amata, interrazziale, interclassista, le toccarono parti anche istituzionali, come «Star Spangled Banner», l'inno nazionale americano, cantato nel ‘91 in atmosfera assai patriottica per l'avvio della Guerra del Golfo. Il successo di Whitney fece anche da apripista a tutta una nuova generazione di voci virtuose femminili, da Celine Dion fino a Mariah Carey. Ma, mentre la loro stella saliva, Whitney cominciava la sua discesa nella cocaina, che la tenne lontana dalla musica per gran parte dei suoi trenta e 40 anni. Uscita dalla rehab la prima volta, aveva confessato: «Avevo tanti soldi, mantenere il vizio era facile, e a cantare non ci pensavo proprio più».



Marinella Venegoni

www.lastampa.it

Il mondo senza Whitney - di Luca Bianchini

Alla fine l’abbiamo applaudita.
E tanto, commossi, come si applaude una bara. Whitney era a Torino nel 2006 per uno dei meravigliosi concerti organizzati per le Olimpiadi. I posti a sedere erano solo su invito e misi da parte tutto il mio orgoglio per averne due (quelle telefonate tremende che uno non vorrebbe mai fare: Ciao, ti ricordi di me?).
Per fortuna trovai due biglietti in extremis e ci portai mio fratello. Era nevicato, o nevicava, per cui c’era quell’incertezza dell’evento fino all’ultimo. Ma l’incertezza dell’evento era legata soprattutto a lei: verrà o non verra? Canterà? Stonerà?
Simona Ventura la presentò con la solita enfasi, ma Whitney non comparve. Aspettammo almeno mezz’ora senza che succedesse nulla. Poi la Ventura tornò di nuovo, cambiò un po’ il discorsetto, fece una battuta (secondo me era incazzata nera) e Whitney era finalmente lì.
Tutta vestita di bianco, bella come Naomi, nella splendida cornice di piazza Castello imbiancata dalla neve. Era lei, ed era tornata. Ma la voce, come tutti immaginavamo, l’aveva lasciata chissà dove. Cantava così male che a un certo punto pensammo di non capirne l’interpretazione jazz. Per cui ci girammo a chiedere conferma a quelli seduti dietro: “Un disastro”, ci dissero.
E così, stoicamente, abbiamo assistito a uno spettacolo pietoso. L’unico acuto perfetto, la “u” finale di “I will always love you”, lo fece una corista.
Ma la cosa davvero emozionante, di quel concerto, fu che alla fine decidemmo di applaudire. Tutti. Incoraggianti. Ci siamo alzati in piedi, a ridosso del palco, e l’abbiamo applaudita forte.
Sapevamo che non l’avremmo più vista, ma tutti volevamo ringraziarla per quelle canzoni che sui dischi suonanavano ancora benissimo. E che ora, forse, torneranno.
Nella morte di Whitney c’è tutta la crudeltà del nostro tempo, e tutto il peggio della mia amata America. Non riesco a capacitarmi che nello stesso Beverly Hotel in cui è morta, pare, annegata nella vasca da bagno in preda ad alcolici e Xanax, si sia celebrata la sera stessa la festa pre-Grammy. E a dare la festa sia stato quel Clive Davis che l’aveva scoperta. “Whitney avrebbe voluto che la musica continuasse”, ha detto in apertura del party, ed è morta lì (da intendere nei due sensi).
E tutti in piedi a piangere poco per paura che che colasse il mascara. Anche se un po’ di occhio lucido piace sempre ai media. Un po’ lucido, ma non fino alle lacrime altrimenti è un disastro.
Anche ai Grammy, stravinti dalla nostra amata Adele (vediamo di preservare almeno lei), se la sono cavata con una bella interpretazione di Jennifer Hudson, e tutti di nuovo commossi spiando con l’occhio chi è seduto vicino a Lady Gaga.
Ai tempi di Twitter, anche la morte accelera i tempi e il cordoglio.
Questo post risulterà oggi già vecchio, datato, ma non importa. Non ce l’ho fatta ieri, a scrivere qualcosa. non ne avevo voglia. Ho messo su un cd, ho rivisto qualche live degli anni 80.
Whitney ha scritto i balli della mia adolescenza, ha accompagnato i miei sogni e anche i miei discorsi alla radio. L’ultimo guizzo artistico l’ha avuto con “My love is your love” (bellissima), in cui cantava tutto qualche ottava più bassa, ma era ancora lei.
Il crack si è mangiato la sua voce.
Ed è morta sola, anche lei, dentro un hotel da 100 stelle.
Sola come sono tanti artisti, ed è stato Twitter a dimostrarcelo ogni giorno, documentandoci le loro merende, le loro facce, le loro esternazioni su qualsiasi cosa. Quelle cazzate sono richieste di attenzione e, forse, di aiuto.
Ma gli artisti li possono aiutare solo pochi amici (che non hanno quasi mai) e i familiari, se non spariscono.
Il padre di Amy era a New York per inseguire il suo sogno di musicista. L’ex di Whitney, Bobby Brown, è salito su un altro palco a poche ore dalla morte.

http://popup.vanityfair.it/2012/02/13/il-mondo-senza-whitney/