Nel numero speciale da collezione di «Rolling Stone» (n. 86, dicembre 2010) sono riportate le 500 migliori canzoni di tutti i tempi selezionate da una favolosa giuria di 262 superstar, superproduttori, giornalisti e promoter che raccoglie gente come Brian Wilson, Rick Rubin, Cameron Crowe, Steven Van Zandt e Will.I.Am. Il risultato è un elenco di brani che tutti conoscono a tutte le latitudini, autentici capolavori che hanno segnato (per lo più) la seconda metà del Novecento e che ancora oggi esercitano tanta influenza sulla musica leggera. La classifica può essere valutata sotto molti aspetti e noi qui proviamo a individuarne due. Il primo: leggendo i cinquecento titoli, si capisce che la buona musica è finita da un pezzo. Oppure (ed è il secondo aspetto) siamo proprio sicuri che l’elenco sia rappresentativo?
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Per noi conservatori (o diciamo pure vecchi «ascoltatori risentiti», adattando la definizione che Adorno dava dei fanatici di jazz)la nuova classifica delle 500 canzoni migliori di sempre è il Santo Graal. Perchè sostanzialmente è identica a quella precedente e perché - viva la tradizione - non cambierà mai. Al primo posto c’è inamovibile il caos organizzato della dylaniana Like a Rolling Stone e al secondo Satisfaction dei Rolling Stones(entrambe del ’65), al quarto e al quinto (tributo alla musica nera, cui il rock dovrebbe accendere tutti i giorni una candela votiva) gli inni soul What’s Going On di Marvin Gaye e Respect di Aretha Franklin (ma l’originale è di Otis Redding). I primi dieci posti sono dominati dai ’60 con l’intrusione dei Nirvana che tengono alta la bandiera dei ’90 (per trovare un altro brano dell’epoca bisogna scendere al 37 con gli U2 di One e poi addirittura al 165 e 170 con Nothing Compares 2 You e Losing My Religion di Sinead O’Connor e Rem). La classifica è un tripudio di pura black music che va da A Change Is Gonna Come al blues Mannish Boy di Muddy Waters, dalle Supremes a James Brown; una festa di r’n’r e rock anni ’70: spopolano Elvis, Everly Borthers, Johnny Cash, Animals, Cream, Bo Diddley, Who, Led Zeppelin (la sinfonia Stairway to Heaven è al numero 31 e poi rispuntano un po’ ovunque), fino a chiudere con il grande dimenticato Smokey Robinson. «Gaudeamus igitur», ovvero godiamocela, sicuri della nostra coerenza con le radici del rock ma un po’ preoccupati per il suo futuro. Va beh che togliere dai primi posti Imagine di Lennon, Hey Jude e Yesterday dei Beatles e Purple Haze di Hendrix sarebbe - con rispetto parlando - come eliminare dal Louvre la Venere di Milo o la Gioconda, ma i capolavori del ’90 saranno davvero solo Personal Jesus dei Depeche, Summer Babe dei Pavement, i Nirvana e il bizzarro Loser di Beck, inno della generazione lo-fi inciso nella cucina di un amico? Un po’ poco. Se gli U2 sono gli indiscutibili traghettatori del rock nel nuovo secolo (sono ovunque e soprattutto al numero 160 con Moment of Surrender del 2009)tanto di cappello ma c’è poco da stare allegri. Si facciano avanti i giovani e non solo i rapper come Jay-Z (172esimo con 99 Problems) o Kanye West (al 273 con Jesus Walks)o i furbacchioni come M.I.A. che spopolano con Paper Planes (campionamento di Straight to Hell dei Clash con sottofondo di spari). Le buone idee pagano come l’incontro tra indie rock e dance che porta in classifica i Franz Ferdinand e il rock dei Coldplay (Clocks è al 490). Il colpo di scena è al numero 100, dove spicca Crazy (maggio 2006) dei Gnarls Barkley (il dj-produttore Danger Mouse e il rapper Cee Lo). Il pezzo è costruito su un campione di Last Man Standing dei nostri Gian Piero e Gianfranco Reverberi e quindi non è neppure originale, ma precede You Can’t Always get What You Want degli Stones e Voodoo Child di Hendrix. Un po’ di coraggio dunque: anche se il passato pesa cominciate a darci le grandi canzoni del 2000. Altrimenti - visto che siam vecchi - sarem costretti a dar ragione a Guccini quando canta: «venite pure avanti inutili cantanti di giorni sciagurati/buffoni che campate di versi senza forza avrete soldi e gloria ma non avete scorza».
Antonio Lodetti
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E passi la nostalgia canaglia. E va bene anche che, massì, i pionieri si meritino qualche riconoscimento in più. Però sono quasi tre decenni che le cinquecento migliori canzoni di tutti i tempi (quali tempi poi?) risultano sempre le stesse, una più una meno, roba che uno si chiede perché farle, queste benedette classifiche. In questa che Rolling Stone pubblica in pompa magna vincono sempre i soliti, dai Beatles (23 brani)a Elvis (11)e così via.Tanto per spiegarci, tra i primi cento posti ci sono soltanto tre brani pubblicati negli ultimi vent’anni: Smells liketeen spirit dei Nirvana al nono posto, One degli U2 al 36esimo e Crazy di Gnarls Barkley al centesimo.Un po’ pochino.Un po’ ingiusto.D’altronde,è vero che per far capire l’effetto che fa, un brano ha bisogno di anni, talvolta tanti.E per capire l’effetto che fa,spesso ci vuole gente con tanti anni alle spalle, difatti la giuria selezionata da Rolling Stone è un tripudio di curriculum e di pancere.
Allora si rischia l’ empasse del «comunque Bob Dylan lo faceva meglio», quel feroce principio di tanta critica musicale che porta a bocciare o declassare irragionevolmente tutti gli altri che sono venuti dopo solo perché sono venuti dopo. E poi ci sono i vibrioni superstiti della politica vecchio stampo che portano immancabilmente ad anteporre l’immancabile Blowin in the wind di Dylan, la canzone di protesta azzoppata dal suo stesso autore che disse «io non scrivo canzoni di protesta», a Stairway to heaven dei Led Zeppelin o Gimme shelter dei Rolling Stones che, come struttura ed esecuzione, sono anni luce avanti. Ma questi sono dettagli tignosi. Il problema è: ma davvero le più belle canzoni di tutti i tempi sono solo di un altro tempo? Possibile che Billie Jean di Michael Jackson meriti solo il 58esimo posto, Paranoid android dei Radiohead il 257esimo e Kiss di Prince addirittura il 464esimo? Insomma,più che una classifica sembra l’album dei ricordi di una generazione ( o forse due o forse tre) che adesso comprensibilmente hanno più voglia di guardarsi indietro che davanti, un po’ come accade ai raduni di auto d’epoca cui vecchi signori arrivano a bordo dell’ultima Audi superaccessoriata perché mica si può rinunciare al computer di bordo, salvo poi dire che però l’Isotta Fraschini, beh, quella era molto meglio. Per un appassionato di musica under 30, e pure per un musicista o per chiunque studi il costume e la società in cui viviamo, un brano come Rehab di Amy Winehouse (al 194esimo posto), con tutto il popò di riflessi sulla discografia degli anni Duemila, o Crazy in love di Beyoncé del 2003 (al 118esimo) saranno più significativi, e quindi più belli e importanti, di A change is gonna come di Sam Cooke, qui al 12esimo posto, registrata nel 1964 quando in Italia c’era Carosello e non la playstation. Insomma nella musica leggera tutto è relativo perché fugace, goduriosamente fugace, ed è vietato cristallizzarlo come paradigma irrinunciabile. E perciò questa classifica, che nel 2010 ai primi dieci posti mette nove canzoni incise prima del 1980, fa venire in mente quella famosa sentenza che Frank Sinatra riservò a Elvis: «È la più brutale, brutta, disperata, perversa forma di espressione che io abbia avuto la sfortuna di ascoltare». Dopo, Elvis ha cambiato il mondo e Sinatra no:e rifare un’altra volta lo stesso errore ci farà solo diventare vecchi prima.
Paolo Giordano
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