MUSICA




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Everybody needs somebody to love - Addio al reuccione Solomon Burke

E' morto come gli era piaciuto vivere, in viaggio per un concerto, sull'aereo che lo stava portando da Los Angeles ad Amsterdam dove avrebbe dovuto suonare con i De Dijk, una band con la quale stava registrando un album. Solomon Burke aveva fra i 70 e i 74 anni. Mai era stato preciso sul particolare, per mantener fede alla leggenda della generazione di artisti neri del soul di cui era l'ultimo esponente, sempre un po' in sospeso fra bugie e glorificazioni, fra bambinate e colpacci da novanta: il suo, di primissimo piano, era stato la canzone «Everybody Needs Somebody to Love», esaltante cavalcata ritmica diventata pietra miliare della black music grazie all'interpretazione che ne fecero John Belushi e Dan Akroyd in «Bluesbrothers», nella scena del concerto in teatro davanti alla polizia dell'Illinois.

Burke l'aveva scritta e interpretata nel 1964, quando già aveva mostrato la propria capacità di esser a proprio agio su più fronti. Era un ministro di culto, nato con il gospel e come predicatore dallo stile gonfio; possedeva un'impresa di pompe funebri messa su in un momento di magra nella musica, che ancora oggi va a gonfie vele. Ma il suo multitalento per gli affari non aveva mai oscurato la carriera principale, di re del soul. Era strabordante, di vita e di fatto. Per portare sul palco i quasi duecento chili di peso, si era davvero inventato di essere re e stava seduto su un enorme trono pittoresco, da operetta: arrivava a fatica, a volte seduto su un seggiolino con le ruote, oscurato dall'ampio mantello rosso, e subito pronto a soggiogare le folle, fra bravura e divertimento, con il suo vocione.

Della stazza non aveva risentito la sua vita sentimentale: aveva collezionato cinque mogli, 21 figli, 90 nipoti e 19 bisnipoti. Tanta abbondanza aveva forse finito per far passare in second'ordine, per un lungo periodo, la sua verve di autore e interprete, non lasciandogli raggiungere i livelli di Sam Cooke o Otis Redding. Il mondo contemporaneo lo aveva scoperto tardivamente, ma negli ultimi vent'anni si era preso delle rivincite come testimone vivente dello spirito del soul: introdotto nella Hall of Fame del Rock and Roll nel 2001, aveva vinto l'anno dopo un Grammy per «Don't Give Up On Me», con pezzi di Bob Dylan o Van Morrison. Il nostro Zucchero lo aveva voluto nel suo «Duets» in una scatenata «Devil in me», e solo due anni fa aveva inciso un bellissimo album, «Like a Fire». Veniva spesso in Italia, al Porretta Soul Film Festival. Ci mancherà, perché quel mondo antico di eccessi e virtù se ne va con lui.

Marinella Venegoni

www.lastampa.it

Solomon Burke & Zucchero - Devil in Me

Solomon Burke & Zucchero - Devil in Me





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