MUSICA




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L'ardua impresa di monetizzare la musica su Internet

Quanti album bisogna vendere su iTunes per guadagnare 850 euro? Almeno milleduecento. E quanti streaming su Spotify? Oltre quattro milioni. Le dure cifre della realtà pubblicate in una ricerca online. Qualche riflessione.


La monetizzazione della musica registrata su Internet, questa sconosciuta. Qualche giorno fa, il sito Information Is Beautiful ha pubblicato una tabella che mette a confronto i volumi di dischi/download/streaming necessari a un artista per raggiungere l’agognato stipendio minimo mensile di 1160 dollari (più o meno 865 euro). I dati sembrano parlare chiaro. Per mettere in saccoccia 1160 dollari, l’artista ha bisogno di vendere 143 cd autoprodotti. Oppure, di piazzare 1229 album in download su iTunes. O ancora di far ascoltare… 4 milioni e mezzo di canzoni su Spotify.

La tabella non va presa come oro colato. Gli stessi autori spiegano che i dati non rispecchiano l’intero e iper-complesso sistema delle royalties discografiche (diritti meccanici, connessi, ecc. ecc.) e che in alcuni casi i valori potrebbero variare (la giungla dei negoziati fa sì che i contratti siano differenti da paese a paese, da etichetta a etichetta, da artista ad artista). La differenza però risalta in tutta la sua chiarezza. Nel mondo fisico dei mattoni e dei cd, la musica registrata ha un valore. In quello digitale dei bit e degli MP3, ne ha uno completamente differente. Se da un lato i quattro milioni e mezzo di ascolti necessari per guadagnare meno di mille euro su Spotify sembrano confermare le perplessità delle case discografiche, che dopo aver spinto molto il servizio svedese nel 2009 oggi sembrano molto più titubanti di fronte al suo modello di business, dall’altro appaiono come l’inesorabile segno dei tempi. Il tipo di fruizione musicale che si sta sviluppando su Internet – ubiqua, universale, quasi infinita – non può che portare, automaticamente, a un radicale deprezzamento commerciale per unità. Il disperato tentativo di conciliare vecchie tradizioni (e vecchi flussi di cassa) con nuove coordinate digitali sembra destinato al fallimento.

Le riflessioni sono molteplici. La prima e la più evidente è quella che spinge l’etichetta e soprattutto l’artista a una monetizzazione che non passa attraverso Internet. Convengono di più i dischi, autoprodotti o no che siano. Convengono molto di più i concerti e il relativo merchandising. Nel mondo “fisico” vige ancora la regola della scarsità e su quella si possono tracciare percorsi conosciuti. Adattarli a Internet, invece, sembra avere poco senso: in un contesto in cui la replica digitale crea miliardi e miliardi di copie (copie che, con lo streaming, non è più neanche necessario possedere), il valore unitario della singola canzone è quasi obbligato a scendere radicalmente. Sarebbe sorprendente non fosse così. Il singolo cd autoprodotto vale ancora otto dollari, o giù di lì. Una singola canzone in streaming su Spotify, secondo i dati raccolti da Information Is Beautiful, vale la bellezza di 0,00043 dollari. E se uno prova a “farla valere” di più, alzando il prezzo delle royalties, il servizio è inesorabilmente destinato a fallire. Lo stesso modello di iTunes, dove un singolo brano viene ancora venduto a un dollaro/euro, appare sempre più instabile. Il tetto di vendite sembra esser stato raggiunto, la percezione è quella di un calo nei prossimi mesi (quando, non a caso, probabilmente Apple varerà un modello diverso, in abbonamento o sfruttando il cloud computing).

E' chiaro che in una situazione del genere si conferma quella che è forse la più grande verità economica della dottrina della lunga coda di Chris Anderson. E cioè che in un contesto dominato dalla diversificazione e dalle nicchie, il vantaggio economico sta quasi tutto in mano agli aggregatori di contenuti: gli Amazon, gli Spotify, i Google. La tabella pubblicata da Information Is Beautiful è fonte però di altre riflessioni. La prima riguarda il vantaggio (discusso, a dire il vero) del contesto multicanale. In parole povere, all’artista conviene ragionare ancora sull’esclusiva (per esempio, bloccando la distribuzione online della nuova musica per alcuni mesi, in modo da monetizzare al massimo i più redditizi cd) o tentare invece una strada più inclusiva, utilizzando contemporaneamente il maggior numero di canali a sua disposizione? I sostenitori della prima ipotesi si soffermano proprio sulla voragine che separa i profitti tra cd e streaming, sostenendo che un’uscita contemporanea online potrebbe cannibalizzare i guadagni più sicuri dei dischi offline (è un po’ il meccanismo delle finestre - anch'esso traballante - per cui un film esce prima al cinema e solo in un secondo momento viene distribuito tramite homevideo, in tv o su Internet). Il problema è che, nel 2010, questo appare solo più come un discorso teorico, slegato dalla realtà dei fatti (e soprattutto, dal futuro). La realtà dei fatti vuole che in un modo o nell’altro, più o meno pirata, la musica sia destinata a finire comunque nel regime dell’abbondanza e della moltiplicazione di Internet. A volte, vedi i sempre più frequenti leak dei nuovi album, addirittura prima della sua uscita su disco. Da questo punto di vista, allora converrebbe forse giocare con le regole dell’abbondanza: tentare cioè di far circolare la propria musica al massimo, distribuendola in tutti i canali possibili. Su iTunes, su Rhapsody, su Spotify, su YouTube, sul proprio sito ufficiale, su Dada, su qualsiasi altra piattaforma. Fare in modo che qualsiasi potenziale utente trovi le canzoni sul suo servizio di riferimento preferito. Non rinunciare a nessuna fonte di guadagno, insomma, seppur minuscola, bensì ottimizzarla. Tenendo conto che una volta che un brano è caricato su un negozio online non c’è più bisogno di fare altro: niente distribuzione, niente spedizione, niente manutenzione. Si guadagna poco, ma non si spende praticamente niente.

C’è poi un altro aspetto, molto controverso, che è quello del rapporto tra artista e intermediari discografici. Nella tabella su Information Is Beautiful compaiono alcune percentuali che fanno pensare. Nel caso del compact disc autoprodotto, per esempio, la gran parte del guadagno finisce nelle tasche dell’artista. Se il cd viene venduto a 9,99 dollari, tolti un paio di dollari per la stampa, tutto il resto è a suo beneficio. Per questo, se abbinata ai concerti, la strada appare particolarmente vantaggiosa e consigliata. In altre formulazioni, laddove vige un contratto discografico, le cose cambiano. Su un cd prodotto da una casa discografica e venduto nei negozi tradizionali, sempre a 9,99 dollari, i guadagni per l’artista precipitano a 1 dollaro (o addirittura 30 centesimi) a unità. Ancora più significativa è la situazione su Internet. Secondo Information Is Beautiful, un album venduto a 9,99 dollari su iTunes porta 6,29 dollari alla casa discografica e appena 0,94 dollari all’artista. Se l’artista lo pubblicasse in modo indipendente, magari attraverso servizi come Tunecore, sempre su iTunes il suo guadagno balzerebbe immediatamente intorno ai 6 dollari. E le stime di Information Is Beautiful sarebbero stravolte: per raggiungere gli agognati 1160 dollari basterebbero circa 200 download, non più 1200. E’ chiaro che il rapporto artista/etichetta non si limita a un discorso puramente numerico: c’è il lavoro di ufficio stampa, di promozione, di management, i rapporti privilegiati con le radio, ecc. ecc. E’ altrettanto evidente come gli artisti dovrebbero cercare di approfondire meglio questi aspetti, partendo già solo dal monitoraggio dei propri guadagni derivanti dall’online (tanto per complicare il discorso, ho avuto modo di visionare il resoconto periodico Siae di una band italiana e i compensi derivanti dal digitale sono presentati in modo a dir poco fumoso: si capisce benissimo che i soldi sono pochi, ma non si capisce niente di come vengono gestiti).

La conclusione che si può trarre è che appare fuori ombra di dubbio che il grado di monetizzazione della musica registrata su Internet è notevolmente più basso di quello dei dischi tradizionali. Non può essere altrimenti. Per questo, la strategia migliore sembra quella di una doppia velocità. Da un lato, un grosso lavoro di qualità, cura e attenzione, sul campo dei vinili, delle edizioni limitate, dei cd, di quei prodotti per i quali i fan più affezionati o tradizionalisti sono ancora intenzionati a pagare somme anche considerevoli (vedi il boom di cofanetti, memorabilia, o anche progetti di sostegno finanziario e volontario online, ecc.). Dall’altro, un’adesione alle regole dell’abbondanza e della circolazione dominanti su Internet. Lo streaming alla Spotify non porterà mai gli antichi guadagni per unità dei cd, ma è probabilmente quello destinato a regnare nelle praterie digitali, di Internet e – a breve termine – degli smartphone. Seppur poco redditizio (ma i suoi volumi di guadagno, con meno lacci, sarebbero probabilmente destinati a espandersi in modo significativo), è fondamentale a livello di promozione, di visibilità, di passaparola virale. Così come lo sono i video su YouTube, la presenza su iTunes e probabilmente anche gli MP3 sul p2p e sui blog. Se il mio canale preferenziale di ascolto musicale è Dada, sono soddisfatto del servizio e scopro che non comprende il nuovo disco di Pincopallino, è molto più probabile che io decida di non ascoltare Pincopallino, non che vada a cercarlo da altre parti. A ciò, dal punto di vista dell’artista, si aggiunge una necessaria maturazione a livello di responsabilità e di consapevolezza. Quello della rockstar del futuro totalmente indipendente, che si occupa di qualsiasi aspetto della propria attività – dalla creazione musicale all’aggiornamento del sito Internet, alla vendita delle spillette – è probabilmente un mito impossibile da realizzarsi. Tranne rare eccezioni, l’artista tenderà sempre più a essere artista che non mercante o uomo marketing. Altrimenti non si chiamerebbe neanche così, no? Allo stesso tempo, però, l’artista non può più rifiutarsi completamente di conoscere questi aspetti. Soprattutto non nel momento attuale, in piena transizione, quando i suoi guadagni dipendono da uno spettro così diversificato, che passa da 130 cd a 4 milioni di ascolti in streaming. Come le etichette discografiche, così anche gli artisti devono imparare a vivere nel presente, intrecciando identità analogica con ramificazioni digitali, vinili e streaming, concerti e video su YouTube, edizioni limitate e abbondanza infinita. Costruendo la propria sopravvivenza economica, per quanto difficile, proprio su basi eterogenee, complesse, contemporanee.

Luca Castelli
www.lastampa.it