MUSICA




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​​​​​​​Parliamo dei nostri gusti musicali
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MUSICA
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Ma tanto il Po non morirà - di Mina - La Stampa - 28.02.10

Non mi sono mai allontanata troppo dal baracchino dove si poteva mangiare l’ambula, i pesciolini fritti del fiume. E potevo, con una bottiglietta di gassosa in mano, stare a guardare il Po che mi rimandava sicurezza, senso di appartenenza, forza. Forse mi rendevo conto che stavo costruendo ricordi. Perché la serenità che mi trasmetteva, quei sospiri lunghi di quando sei al limite della sindrome di Stendhal, erano già mancanza, malinconia, nostalgia.

Il ponte di ferro, gli argini, le biciclette, le scalette che scendono dalla Baldesio fino al pelo dell’acqua, gli spiaggioni che emergevano quando il Po era magro, i ragazzi d’estate, l’ipnosi dei mulinelli che si formavano all’improvviso «sta’ attenta che ti tirano giù, ti lascio andare se mi prometti che non farai il bagno», le prime gambe nude al sole feroce dell’estate cremonese. Non mi stanco di alcun ricordo e non smetto di veder passeggiare sugli argini solo brave persone, capaci di modestia, di paura, di serietà. Adesso siamo tutti lì, insieme a quelli che non ci sono più, tutti a osservare stupefatti e delusi la frenesia tardiva del rimedio al crimine abituale e continuato. Sporchi e impotenti come uccelli marini sulla spiaggia di Piriapolis dopo il vomito di una petroliera, ci accorgiamo delle nostre lacrime di rabbia. Neanche i mulinelli si vedono più.

Stanno sotto lo strato pecioso che li nasconde. Dove vado? Quasi quasi mi ci metterei anch’io sotto il mantello nero del mio Po. Tanto lo so che non morirà. E lo sa anche chi lo insozza e chi lo soccorre. Il Po continuerà a farmi compagnia anche se con l’odore delle tragedie che si trascina dietro. L’ultima pena è uno strato di quindici centimetri di idrocarburi lucidi, neri e densi, da trasportare sulla groppa della corrente fino a quando qualcuno non ne imbrigli il peso con spugne, barriere ballerine e succhiatori d’olio imbarcati su navigli pietosi. Guardo e ascolto con la minore attenzione possibile un po’ di immagini somministrate a casaccio e un po’ di ciance, le solite, sulle colpe, sui pericoli, sulle speranze.

Per ora il mio fiume pare ancora Acheronte con la sua «onda bruna» e la sua «trista riviera». Sulla sabbia delle sue rive c’è da troppo tempo una confusione di dannati ignavi e criminali con un forsennato bisogno di non prendere decisioni o di prenderle sbagliate e in malafede. Il Canto III dell’Inferno mi aiuta. Purtroppo.


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