MUSICA




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​​​​​​​Parliamo dei nostri gusti musicali
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MUSICA
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Indietro Savoia nel caos di Sanremo - di Federico Vacalebre (Il Mattino)

Percossa e attonita la terra dei cachi al nunzio sta. Lo attende, spaventata che possa essere il peggiore possibile, almeno per questa gara di canzonette, almeno dopo la contestazione plateale che ha associato orchestra e televoto. Quando arriva il nome di Valerio Scanu un respiro di sollievo collettivo unisce Ariston, sala stampa e le case degli italiani: non perché si gioisca per la seconda vittoria consecutiva di un giovane sardo lanciato da «Amici», non perché si impazzisca per l’orecchiabile, ma banale, melodia di «Per tutte le volte che...» firmata da quel Pierdavide Carone che è uno dei pezzi forti della nuova edizione del talent show condotto da Maria De Filippi. Ma per la paura che potessero davvero vincere i Tre Raccomandati. E per la promessa di Emanuele Filberto: «Non canterò più», anche se i più cattivi si chiedono quando mai l’abbia fatto. Il ventenne di La Maddalena fatica a far prendere sul serio la sua vittoria, il teatro è troppo impegnato a contestare il secondo posto di Pupo, il principe e il tenorino Luca Canonici, che si piazzano davanti a Marco Mengoni, il vincitore dell’ultimo «X Factor», a confermare il dominio dei talent show su questa edizione dopo la vittoria tra i giovani di Tony Maiello. Il Festival da calma piatta e ascolti record (quelli della quarta sera sono i migliori del decennio: 11.247.000 telespettatori per uno share del 50.74 per cento) chiude nel segno clamoroso della protesta contro la triade: nel bene (non pervenuto) e nel male (la noncanzone, il ripescaggio, l’invasione a gamba tesa di Lippi, la retorica nazionalista, l’arrivo in finalissima) la triade ha monopolizzato l’attenzione quando la kermesse ha spento i riflettori sui casi Morgan e Povia. L’Ariston rumoreggiava già al verdetto parziale, accolto da una poderosa salva di fischi. Dietro le quinte i dirigenti Rai speravano che quanto seminato fino a quel punto non venisse venga mandato in malora da una vittoria del chiacchieratissimo trio. Fuori Malika Ayane, che con «Ricomincio da qui», vince il premio della critica, fuori gli altri migliori di quest’edizione come Noemi, Cristicchi e la Grandi, dentro la retorica nazionalista e i volti televisivi della triade. Al popolo giovanile degli sms il compito di impedire la folle vittoria, sia pur diviso tra Marco Mengoni, l’estrosa voce di «Credimi ancora», e il tenero Valerio Scanu, da cui tutti vorrebbero sapere almeno perché vuole fare «l’amore in tutti i modi, in tutti i luoghi, in tutti i laghi». L’orchestra si dissociava dal pateracchio con una contestazione finalmente plateale: i musicisti (che avevano scelto Ayane e Cristicchi senza riuscire a influenzare il risultato) buttavano via gli spartiti, la galleria rilanciava urlando «vergogna, vergogna, vergogna», e poi, per essere ancora più chiara, «venduti, venduti, venduti». Il regista Duccio Forzano non inquadrava più l’intera dirigenza Rai, seduta in prima fila: peccato, sarebbe stato uno spettacolo nello spettacolo. Da vera professionista, la Clerici reggeva l’onda d’urto, ci metteva la faccia e cercava di prepararsi ad un finale incandescente, con un record d’ascolti è garantito nel peggiore dei modi. Processo breve (e giusto) a Sanremo sarebbe stato eliminare in diretta l’uomo di «Gelato al cioccolato» e i suoi compagni d’avventura dopo l’invasione di campo del ct Lippi nella quarta serata. Non rispettare le regole vuol dire alimentare i sospetti e la sfiducia, permettere esplosioni giustizialiste come quella andata in onda. «So bene che ho tutte le carte per fare ricorso, ma lascio perdere», proclama Enrico Ruggeri, eliminato venerdì sera. Nino D’Angelo aveva simbolicamente minacciato di non cantare più in caso di vittoria della profana Trinità. Maurizio Costanzo, prima del finale, ha messo la cravatta, per lui è un evento, dedicato la serata a Mike Bongiorno, per 11 volte conduttore del Festival, e portato sul palco tre operai di Termini Imerese, ricordando la storica edizione del 1984 quando Baudo aprì le porte alle tute blu dell’Italsider. E il paese reale (quello che sta a casa) insieme al paese di governo (Scajola, applaudito protagonista di un minicomizio interrotto dalla Clerici: «Questo è il Festival di Sanremo») e Bersani (timido e fischiato), si è trovato di fronte il dramma disoccupazione. Altro che canzonette, principi, nani e ballerine: tre - numero casuale? - italiani veri che hanno qualche problema a dire ancora «Italia amore mio».