MUSICA




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​​​​​​​Parliamo dei nostri gusti musicali
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MINA QUASI JANNACCI

MINA QUASI JANNACCI


Ne ho scovata una copia residua (chissà da quanto tempo) in un negozietto proprio dietro casa mia: l'ho regalata a Giovanni, che ancora non l'aveva (e dopo qualche mese hanno rimasterizzato tutto il catalogo PDU, ma in una veste grafica meno sobria dell'originale, quindi meglio come è andata).

All'ascolto di Mina quasi Jannacci ci sto dal 1978, anche se era uscito l'anno precedente (all'epoca i miei acquisti, non essendo indipendenti, non erano regolari...); me lo regalarono insieme a Mina con bignè (anch'esso del '77) per il mio compleanno. Già avevo rivisto Mina in tv, che cantava Ancora ancora ancora in una sigla finale, ma per l'età non mi avevano lasciato raggiungere Bussoladomani dove aveva ricominciato a cantare dal vivo e faceva il tutto esaurito ogni sera, e dicevano che come sempre era un miracolo ascoltarla e vederla cantare.


Entrando nel vivo di Mina quasi Jannacci, continuo a pensare che sia stato uno dei momenti di maggiore grazia della Mina rilettrice in assoluto; alla pari, dunque, con la Mina recente di Dalla terra (2000, arie sacre di tutti i tempi, con l'ausilio del qui ritrovato e sempre magistrale Gianni Ferrio), Sconcerto (2001, dedicato a Domenico Modugno).
L'apertura del disco è - sia pure in maniera forse diametralmente opposta - scioccante, al pari di quanto accade in Sconcerto. Quell'attacco a cappella, lucido e disincantato, quasi a voler precisare che non sarà un ascolto/passeggiata, subito sottolineato da note sparse di pianoforte per sola mano destra:



Rino,
fatti volere
tutto il bene che a me
non m'hanno voluto...
Mamma, ti saluto...



Una canzone così breve ed esaustiva, compiuta, da risultare la giusta porta di tutto il disco, riallacciabile senza alcuna difficoltà al pianoforte straniato che si allontana chiudendo Ecco tutto qui alla fine dell'ascolto. Una chiusa amara, semplice e definitiva, come il dolore attutito nel mamma, ti saluto di Rino... E in mezzo "nasce" Enzo Jannacci, come forse nemmeno lui sospettava di essere bravo.
Fenomenale (e unicamente minesco) il lieve allungamento della vocale "e" in E l'era tardi:



l'eera tardi, l'eera tardi

per disturbaa la geint

ciapà magari a fa l'amuur...

la geint che la gà i su impeign...
(mi scuso coi milanesi per la grafia da me attribuita al loro dialetto)



quell'allungamento di vocale, dicevo, fornisce in toto quel misto di amara rassegnazione e stupefacende euforia pre-tracollo che tutti abbiamo almeno una volta nella vita sperimentato, al culmine di un dolore. Ecco cos'è il genio, cos'è l'arte di cui tanto dibattiamo, in interminabili disquisizioni: una vocale. La pronuncia di una sola vocale, in cui si concentra tuttavia, l'intero senso di un discorso.


Si scivola quindi in Saxophone, gioiellino di ironia e sapiente modulazione della voce, con finta prova e colpetto di tosse ammiccante, speciale. E Mina, la Mina che abbiamo tante volte magnificato, la Mina che tante altre volte ci ha lasciato a bocca aperta, sudando e innamorandoci di lei inebetiti, ci dona la riprova del suo pathos in quel finale vorticoso e vertiginoso di Tira a campà, quasi un farsi forza di fronte alla vita che spinge sempre dalla parte opposta (non so perché ma mi richiama il "non ho paura, non ho paura" de La follia, brano degli anni '90... anche se gli stati d'animo sono, tra le due canzoni, decisamente diversi).


E poi c'è Vincenzina e la fabbrica: interpretazione ultimativa, eccellente, sapiente. Senti la voce e vedi Vincenzina che, come una protagonista pratoliniana, va a fare l'operaia col cuore di una borghese (fosse stata incisa nel 1955-1960, l'avrebbero stroncata... sbagliando, ovviamente, come accaduto col povero Metello)!
E ancora, E savé... eccoli, finalmente, i bassi di Mina... e i vibrati struggenti... quel piang seinsa il fasulèt, in cui la voce trema, ma delicata, da farti venire la pelle d'oca e muoverti alla commozione sincera... credo si tratti di soffusissimi birignao, dettati però dall'anima senza alcuna intenzione virtuosistica, quanto semmai "animati" (appunto) dalla precarietà dell'esserci, che è al contempo precarietà della parola e del suo suono... che invece si ricompone di fronte ai fatti, agli eventi: la vita, la morte. Come in La sera che partì mio padre... la sera che me ne andrò anch'io... con quel mandolino che sempre torna, in una sorta di segreto fil rouge, ad abbassare il tono, a spegnere ogni accenno di retorica, a suggerire un sorriso mentre gli occhi si riempiono di lacrime... che è forse la più calzante immagine di come piangono i poveri, nella composta dignità delle cose semplici...


E più oltre Vita vita o Sfiorisci bel fiore, momenti popolari che ti aprono davanti quei bei film in bianchennero che purtroppo non si fanno più, e ti pare di vedere la Mangano o la Loren della prima ora, poi un lampo di verde intuìto degli occhi della Magnani, mentre la canzone si snoda nel suo rituale metrico delle strofe, ripetute senza ritornello (Sfiorisci bel fiore) o tutt'al più nel crescendo della tonalità (come una sorta di rilancio e di non-resa, in Vita vita...

Ecco, tutto qui (come se fosse poco...).


Filippo Davoli

Mina - La sera che partì mio padre

Mina - La sera che partì mio padre

Video di Minafan 51



LA SERA CHE PARTÌ MIO PADRE

La sera che partì mio padre
noi s’era alla finestra a guardare,
guardare per vederlo andare,
andare neanche tanto lontano,
muovere neanche la mano.
La sera che partì mio padre
non c’erano canzoni da ascoltare
perché la radio continuò a parlare
e mio padre andava
per non tornare più.
La sera che partì soldato
gli dissero di non sparare
che era solo roba di leva militare
bastava dire soltanto “Altolà”.
La sera che arrivò sua madre
che lo vide bianco senza più respirare
aveva in mano il telegramma
medaglia d’oro per l’Altolà.
La sera che me ne andrò anch’io
io spero solo, solo che sia Natale
perché a Natale stanno tutti in casa
a mangiare, a bere, ascoltarsi parlare.
La sera che me ne andrò via
diranno che dovevo andare
diranno che non vado a star male
ma io so già che là non si sta così.

Enzo Jannacci - La sera che partì mio padre

Enzo Jannacci - La sera che partì mio padre



"La sera che partì mio padre" (originariamente contenuta nel LP "Vengo anch'io, no tu no" del 1968 -etichetta ARC, per quanto a mia conoscenza non esiste in supporto CD.


Enzo Jannacci - La sera che partì mio padre


Re: MINA QUASI JANNACCI

Hai fatto bene a riportare questo bellissimo scritto di Filippo. Il disco ancora oggi suona alla grande, è fortissimo. Mina e Gianni Ferrio hanno fatto delle poesie musicali sulle canzoni di Jannacci.