MUSICA




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Bruce Springsteen infiamma l'Olimpico - Fra tre giorni sarà a Udine

L’Olimpico non è San Siro e Roma non è Milano, così ieri sera Bruce Springsteen ha potuto spegnere il suo amplificatore ben oltre la mezzanotte senza timore d’incappare in grottesche denunce per violazione della quiete pubblica come quella piovutagli tra capo e collo la scorsa estate tra gli spalti del Meazza per aver «sforato» di una ventina di minuti il limite imposto dal Comune. Per il suo debutto alla stadio romano - il rocker del New Jersey non tornava «open air» a Roma dal ’93 e finora aveva sempre suonato al Flaminio - l’uomo nato per correre ha voluto un repertorio tutto pelle e cuore che ha trascinato i quarantacinquemila (e forse sarebbero stati di più se non fossimo stati alla fine di luglio e con temperature africane) all’ormai abituale grido di battaglia: «C’è qualcuno vivo là fuori?».

Come a Genova dieci anni fa, in tribuna c’era mamma Adele Zirilli e Bruce ha fatto di tutto per regalarle il suo italiano migliore, parlando nella nostra lingua, scherzando e sudando come ai tempi in cui fuggiva da casa per rotolarsi con gli amici sul palco dello Stone Pony di Asbury Park a sognare la strada del tuono. E di quei «ragazzacci» ce n’erano diversi, ieri sera sul palco, ad incrociare la chitarra o il sassofono con lui.

Anche se per loro il tempo sembra essere passato più veloce che per lui e senza la forza tellurica di uno Springsteen in stato di grazia tutta l’accolita di compagni ancora riunita dal sacro marchio E Street Band sembrerebbe la copia sbiadita di quella di ieri. Tornato dietro ai tamburi dopo un avvio di tournée affidata al figlio Jay a causa di improrogabili impegni televisivi in casa Nbc, Max Weinberg dà il tempo con la veemenza di sempre, ma gli altri latitano un po’. Solo Nils Lofgren strappa applausi a scena aperta con assoli di gran pregio. Ma a colmare il divario con il passato, o forse solo a dare l’impressione di farlo (ma va bene lo stesso), è un Bruce granitico, gladiatore con la Telecaster smanioso di farsi valere al fianco di un Clarence Clemmons che non riesce più a dar fuoco al suo sassofono.

Fra i brani d’apertura «Badlands» è un colpo al cuore, anticipato dal tema di «C’era una volta il West». Dopo «Out in the street» arriva subito «Outlaw Pete», un brano dall’ultimo album «Workin’ on a dream», uno dei migliori. Il gioco tra passato e presente si fa serrato: «No surrender», «She’s the one» con l’armonica a bocca, «Working on a dream» fischiettata da Clemmons, «Seeds» (con assolo di chitarra di Bruce), «Johnny 99», un’emozionante pausa acustica con «Atlantic city» con coda gospel, «Raise your hand», l’entusiasmo di «Hungry hearts». «Che bello essere nella città più bella del mondo», arringa il cantautore. «Siamo venuti da lontano per mantenere la nostra solenne promessa: curare le nostre anime e costruire una casa di musica e rumore. Noi porteremo la musica, ma Roma dovrà portare il rumore». Inutile dire che in cambio arriva un boato che fa tremare lo stadio. E che il riferimento alle polemiche per il «rumore» l’anno scorso a Milano è evidente.

Poi è il momento di «Bruce on demand», ovvero il juke-box con le richieste del pubblico. Tra le tante richieste innalzate dagli striscioni Bruce sceglie «Pink Cadillacs» correndo come un indemoniato, «I’m on fire» scherzando con lo sguardo da «Soprano» di Little Steven, e «Surprise» (un regalo ad una fan che compiva 35 anni nello stadio) cantando accompagnato dalla fisarmonica di Roy Bittan e dal languido violino di Soozie Tyrell, stillando anche l’ultima goccia di sudore e di gioia, da ultimo dei rocker. Manca Patti Scialfa, ma ormai si sa che i loro non sono più «Glory days» e lei non segue più il marito in tournée.

Dopo il gioco delle canzoni a richiesta si ricomincia con la scaletta, implacabile nel pretendere il coro dello stadio per urlare ancora una volta al cielo il sogno di una «Promised land» tutta rock and roll. Lui recupera «American skin», un’ovazione accoglie «The rising», ma è «Born to run» il pezzo più atteso, quello che spacca il cuore e fa ruggire i muscoli, prima del rito dei bis, con «My city of ruins» dedicata alla «gente di L’Aquila», l’eterna «Thunder road», con l’immensa «Jungleland», «American land» (con mamma Adele che sale e balla sul palco), con la storia di Bobby Jean, con la voglia di ballare davvero nel buio dello stadio riconquistato: «Dancing in the dark».

Si replica a Torino domani e ad Udine giovedì.

www.ilmattino.it

Bruce Springsteen - Dancing in the dark (Live in Barcellona 2002)

Bruce Springsteen - Dancing in the dark (Live in Barcellona 2002)