MUSICA




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Nell'epoca dei sondaggi, si dimentica che nel 1961 uno fece da apripista. Riascoltiamolo!

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Giusy

Re: Falqui - Una Tivù tutta da buttare (da Repubblica del 6.07.1996)

FALQUI UNA TIVU’ TUTTA DA BUTTARE
di FRANCO MARCOALDI

Il regista di Studio Uno e di Canzonissima non si limita a ricordare i fasti di una volta, quando il varietà voleva dire Mina o le Kessler, ma spara a zero sulle trasmissioni di oggi:roba da dilettanti ‘Si dice che è stata la politica a rovinare la Rai, secondo me la vera magagna è il trionfo degli incompetenti... gente che magari non è andata a teatro neanche una volta in vita sua, a parte il Bagaglino’ Il delirio dell’intero circo dei media 12 miliardi a Bonolis come se fosse Chevalier

Roma - Ammesso e non concesso che al centro della scena sociale ci sia ancora lei, sempre lei, solo lei - la tivù - viene naturale inserire in questa breve carrellata di "protagonisti fuori-scena" (per scelta o per forza), un maestro vero dell’intrattenimento televisivo: Antonello Falqui. E difatti eccomi qui, nel suo appartamento borghese ai Parioli (ingresso con marionette siciliane francesi thailandesi cinesi; sala da pranzo tappezzata di manifesti dell’età d’oro di Broadway; salotto coi suoi bravi De Pisis, Maccari, Vespignani, Caruso). La casa, in effetti, la immaginavo proprio così. Era l’incontro che mi prefiguravo diverso. Due amabili chiacchiere con un anziano signore adagiato nei ricordi dei bei tempi andati: quelli di Studio Uno e Canzonissima; Mina e Walter Chiari; il bianco e nero e Rintintin. Naturalmente abbiamo parlato anche di questo. Ma l’anziano signore sembra decisamente più propenso a dire la sua sulla fetenzia cui è ridotta la televisione di oggi, e sul delirio dell’intero circo dei media che soffia ininterrottamente su questo benedettissimo nulla. Voce profonda e strascicata da romano verace, Falqui esamina pezzo per pezzo, con la meticolosità di un meccanico che conosce alla perfezione il motore in cui sta affondando le mani, i guasti profondi intervenuti nel corso del tempo. Soprattutto alla Rai, l’azienda cui ha fatto da levatore (era già lì nel ‘53 con Mike Bongiorno, per il primo programma sperimentale a circuito chiuso, Arrivi e partenze). "Si dice sempre che è stata la politica a rovinare la Rai. Secondo me le si dà un’importanza eccessiva per coprire la vera magagna: il trionfo, da un certo punto in avanti, degli incompetenti. Se il disastro cui siamo arrivati avesse davvero un fondamento politico, allora non si capisce perché ci troveremmo nella paradossale situazione di dover esaltare Bernabei: politicamente, da me distante; ma come direttore d’azienda un gigante, se paragonato ai nani di oggi". Falqui non fatica a indicarti l’inizio del precipizio: tutto sarebbe cominciato quando la concorrenza Rai-Finivest, anziché giocarsi al rialzo, è stata condotta dal servizio pubbico a un costante e avvilente ribasso dai nuovi potenti di turno: i Funzionari. "Intendiamoci, tra i dipendenti dell’azienda ci sono, e soprattutto c’erano, fior di personaggi. Solo che mentre i La Capria e i Patroni Griffi venivano messi in condizione di non lavorare, e infatti se ne andarono, cominciò a dettar legge una massa di inetti. Gente che non era andata a teatro neanche una volta, a parte il Bagaglino, ma che in compenso si è imposta rapidamente su tutto e su tutti. Hanno trovato dei registi galoppini, e progressivamente allontanato chiunque badasse alla qualità, al gusto, alla precisione. Se pensa soltanto che ormai fanno sei ore di trasmissione come Domenica In senza prove, come viene viene, all’impronta... Poi si capisce perché i risultati sono quelli che sono". Falqui, al contrario, racconta che ai bei tempi andati, per ideare una sola scenetta, ci stavano dietro anche un paio di giorni. Ma allora era tutto diverso. Intanto, c’era un team vero di autori (Marchesi, Simonetta, Lerici). Poi c’erano in giro personaggi unici, irripetibili: Mina, Walter Chiari, De Filippo, Franca Valeri. Infine c’era lo stesso Falqui che se andava per il mondo a cercare talenti. E ogni volta tornava con un pezzo da novanta: Henri Salvador ("che nessuno aveva mai sentito nominare"), Lola Falana ("l’ho imposta inventandomi che era l’amante di Sammy Davis"), le Kessler ("una visione paradisiaca; quel lusso estetico in Italia non si era mai visto: e difatti commentatori come Montanelli o Arbasino furono spinti a scriverci su"). Comunque un luogo, una meta, veniva prima di ogni altro: anche se il varietà televisivo "in dodici puntate a botta è una forma di spettacolo tutta e solo italiana" (questo davvero non lo sapevo), il sancta sanctorum in cui si andava a imparare, e magari rubar qualche idea, era Broadway. E difatti fu lì che Falqui trovò la suggestione giusta per rivoluzionare la grafica televisiva, con un famosissimo Studio Uno. "Nella tradizione della rivista teatrale, si tendeva a sovraccaricare sempre la scena; con barocchismi di ogni genere. Io puntai invece al vuoto del palcoscenico: un bianco immenso in cui si stagliavano le figurine nere dei protagonisti. Mi arrivò, tra le tante, una lettera di Leonardo Sinisgalli - allora all’Olivetti - di cui vado molto orgoglioso. Hai inventato un nuovo linguaggio, diceva. E forse è pure sprecato per la tivù. "A quei tempi, naturalmente, ero di avviso diverso, ma a vedere quel che passa oggi il convento... Del resto mi vengono i brividi anche quando mi ritrovo a pensare che forse sono stato tra i principali assassini della rivista teatrale, visto che il varietà televisivo ne è filiazione diretta". I padri nobili di questo spettacolo leggero, come è noto, non mancano. Marinetti ne parlò come di una stravaganza assoluta: come del foglio di carta bianca da riempire con tutta la fantasia di cui uno è capace. E in effetti, a rivedere i siparietti di Studio Uno e Canzonissima, si ha l’impressione che chi faceva quelle trasmissioni se la divertisse davvero. (Il che spiegherebbe pure perché gli stessi spettatori si sentissero meno depressi di oggi). Voglio dire: è inutile tirar fuori la solita solfa del laudator temporis acti. L’abisso tra i varietà del tempo e quelli di adesso (in termini di garbo, ritmo, stile, humour: cioè tutto) è un dato di fatto oggettivo. "Era proprio un’altra grana, un’altra pasta televisiva. Certo, va messo in conto anche il passaggio dal bianco e nero al colore, che di per sé può essere pure una fregatura. Può incafonire molto. Ma proprio per questo occorrerebbe andarci piano. Utilizzare tinte tenui, non calcare mai la mano. E provare ogni volta a inventarsi qualcosa. Anche una piccolissima cosa. In uno dei miei ultimi varietà, Palcoscenico, c’era Milva che cantava canzoni della mala sulle prostitute. E allora pensai di utilizzare il cromakey mettendo alle sue spalle le puttane di Chagall. "Ma di nuovo, bisogna sapere chi è Chagall. E cosa vuole che gliene importi ai potenti degli ultimi anni: a gente come Locatelli, noto soltanto per aver distrutto le reti dove ha lavorato; a Maffucci, che è riuscito nell’impresa più difficile al mondo: affondare il sabato sera. O ai nuovi ‘creativi’: Guardì-Strapaese, con la sua avvilente piazzetta dove si vendono radioline mentre l’handicappato ti parla dei guai suoi; e Baudo-Citizen Kane, che non sa dove stia di casa l’ironia ma in compenso ci ha intrattenuto per intere stagioni una sera sì e l’altra pure. "Mi dica lei se è possibile che tutto questo non incida, e a fondo, sul gusto e gli umori dell’italiano medio". Falqui è un fiume in piena. Qualunque traccia gli suggerisci, lui viene dietro. E dopo un minuto ti ha già superato. Ad esempio (faccio io): non crede che l’altra grande malattia - e mica solo in tivù - sia la totale confusione di generi e ruoli? Quando ti devi sorbire le spieghe di Funari sul debito pubblico - neanche fosse il ministro di Bilancio e Tesoro - o ti ritrovi la Parietti nei panni del commentatore di politica estera, vuol dire che la metastasi ha fatto già un bel pezzo di strada nel corpo sociale. "Ma per forza. Quando lei spazza via da un’azienda tutte le menti direttive; gli uomini capaci di tagliare, potare, fare da filtro, che rimane? Rimane la mano libera alla stella, all’attore. E non c’è niente di peggio. La Carrà ha fatto con me Milleluci e non aveva mano libera neanche sulla scelta delle scarpe. Beh, ha sofferto le pene dell’inferno, ma proprio qualche sera fa mi ha detto che considera quella trasmissione quanto di meglio ha combinato in televisione. "La verità è, che oltre a distruggere un’azienda, hanno anche mandato al massacro personaggi che potevano dare molto ma molto di più. Prenda Banfi: è bravissimo nell’avanspettacolo, perché quella è la sua storia. Se invece gli metti lo smocking e gli fai presentare la mostra del Cinema, è ovvio che viene da ridere. Niente da fare. Ormai vige una regola aurea: mai e poi mai la persona giusta al posto giusto". Insomma Falqui, smettiamo di girarci intorno: a quando il ritorno in tivù? "Di recente Mara Venier mi ha fatto un richiamo a vista, direttamente dagli schermi televisivi: Antonello, ti aspettiamo. Torna con noi. "E’stata molto gentile. Ma torno a far che? Quelle puttanate di cui abbiamo appena parlato? Torno per andare appresso a una televisione che paga dodici miliardi a Bonolis? Non ho detto Chevalier o Walter Chiari. Ho detto Bonolis! "La verità è che dovremmo darci tutti una grande calmata. E per primi voi dei giornali. La televisione è diventata un’ossessione collettiva. E non capisco perché. Quando la facevo io, non è che fosse vista di meno. Anzi: Il Musichiere lo davano nei cinema se no a vedere i film non c’andava nessuno. E con Majano, regista de La Cittadella e i Fratelli Karamazov, ci giocavamo il caffé su chi aveva fatto l’audience più alta della settimana. Roba da venti milioni per volta. E con un gradimento altissimo, che adesso non è neppure rilevato. Eppure mica c’era questa cagnara continua, questo ping pong ininterrotto tra giornali e tivù e giornali e tivù... "Ma forse questa convulsione, questo affanno, stanno proprio a indicare che il centro della scena, ormai, è completamente vuoto, deserto".