MUSICA




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Sono capolavori che diventano compitini pop - di Cesare G. Romana

Sono capolavori che diventano compitini pop - di Cesare G. Romana

Parte Mi chiamano Mimì e subito viene in mente, una per tutte, la Bohème di Maria Callas,quella sua sensualità acidula, quel genio di tragedienne capace di assumere in sé le ironie e le desolazioni, i sorrisi e i dolori del mondo. E la nostalgia si fa lama rovente. Più oltre comincia (o non comincia: mancano chissà perché (...) le prime battute) il Lamento di Federico, e come fai a non rimpiangere Tito Schipa. Poi Nessun dorma, reinventata in garbata tiritera pop, evoca a contrariis lo sfolgorante Vincerò di Franco Corelli. E a colmar la misura, E lucean le stelle accende il ricordo, poniamo, di Beniamino Gigli, o almeno di Pippo Di Stefano, nella leggendaria edizione diretta da De Sabata.

Accade dunque al cronista, per mestiere, di canzoni, ma melomane per passione di ascoltare questo Sulla tua bocca lo dirò, il nuovo album di Mina dedicato al melodramma e ai suoi dintorni, con un senso di imbarazzato disagio. Mina che canta Puccini, Cilea, il Gershwin di Porgy and Bess (che è un’opera lirica, sebbene le note di copertina l’assegnino, inopinatamente, al «’900 non propriamente classico»). E ancora Bernstein, Piazzolla, Tosti, il Settecento veneziano di Albinoni (ma fasullo: Mi parlavi adagio è in realtà del novecentesco Remo Giazotto e il testo appositamente scritto è di Giorgio Calabrese) e quello napoletano del Giordanello, in Caro mio ben. Con in più un indifendibile oltraggio a Puccini, nel preludio al terzo atto di Manon Lescaut, dove il pedestre arrangiamento di Gianni Ferrio fa piazza pulita del genio orchestrale dell’autore, e il testo di Calabrese, bello ma che c’entra?, fa il resto.

Ora Mina è, lo sappiamo tutti, grandissima. Che, a quasi settant’anni, la sua voce mantenga la freschezza, l’estensione, la nettezza di timbro che ha, non è solo una sfida all’anagrafe: è piuttosto un miracolo.

Che il suo repertorio, e con esso il suo talento d’interprete, spazi lungo tutto lo scibile della musica popolare, è un non minore prodigio. Ma la lirica, quella davvero non le appartiene.

Del canto operistico Mina non possiede, né lo potrebbe, le peculiarità vocali, lo specifico stilistico, l’«imposto», l’educazione: tutte qualità che non nascono dall’istinto, né scaturiscono dall’improvvisazione, ma esigono anni di studi e di esercizio.

E così questi capolavori tolti a Tosca,Bohème, Turandot, L’arlesiana, Porgy and Bess si riducono a dimessi compitini pop: gli arrangiamenti di Ferrio sono cortesi ma banalizzanti, il canto disperde il pathos nativo di queste pagine in patetismo generico, il fulgore in mezzetinte, la febbre melodrammatica in intimidita colloquialità. Ascoltando queste diligenti, volonterose, illusorie riletture di tante grandi arie si prova, noi melomani, lo stesso senso d’estraneità che ci coglie ascoltando certi grandi della lirica impancarsi a canzonettisti.

Pazienza, certo: se è vero che anche il buon Omero, come sostenevano gli antichi, di tanto in tanto sonnecchiava, anche a Mina sarà consentito, per una volta, di sbagliare un disco.

Cesare G. Romana

(da "Il Giornale" del 4.03.2009 - pag. 33)