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Dargen D’Amico a Sanremo

Dargen D’Amico a Sanremo: “Il mio livello di competizione? Pari a quello in una mano di scopone”
È una mosca bianca: la sua “Dove si balla” porta l’attualità all’Ariston. E su Fedez, di cui oggi è stretto collaboratore, dice: “La polemica sulla scrittura dei suoi testi è un segno di questi tempi”.

Di Claudio Cabona

Dargen D’Amico è un pezzo di storia della cultura hip hop italiana, dal gruppo Sacre Scuole fino alle collaborazioni con la nuova scena passando per un percorso solista che l’ha portato a sfornare nove album ricchi di sperimentazione. Ma in realtà è anche molto altro. Per questo motivo sfugge, sempre con un leggero sorriso e con gli occhiali da sole, alle definizioni più convenzionali: rapper, cantautore, produttore, dj, autore, ha sempre giocato un suo campionato a parte. L’artista milanese, 41 anni, volerà all’Ariston come una mosca bianca. La sua “Dove si balla” è allegra e dirompente, ma allo stesso tempo trae linfa vitale dal presente, portando l’attualità nella Città dei Fiori come un fuoco d’artificio.

Ironico, colto, poetico, ma mai realmente esploso a livello mainstream, negli ultimi anni ha spalancato la porta dell’autorato, diventando anche stretto collaboratore di Fedez a cui, in certi ambienti musicalmente ortodossi, si rinfaccia di “farsi scrivere le canzoni” da altri, dimenticando in realtà come la realizzazione di musica in team sia pratica comune. Con Jacopo D'Amico, questo il suo vero nome, abbiamo parlato anche di questo, ma soprattutto di come un Joker dissacratore della musica come lui sia finito a gareggiare all’Ariston.

“Dove si balla” arriva a Sanremo come una cannonata, portando anche l’attualità. Dopo due anni di pandemia canti: “fottitene e balla”.
“È un brano liberatorio che trae ispirazione dagli eventi che ci riguardano da due anni. Ho liberato alcuni pensieri che sentivo. Non pensavo quando l’ho scritto che lo avrei portato a Sanremo. Non sono decisioni, nel mio caso, che si possono pianificare. La scrittura per me è stata un’esplosione controllata”.

La musica?
“Dal punto di vista musicale i produttori Adwyn Roberts, Gianluigi Fazio e Andrea Bonomo hanno voluto miscelare una certa dance italiana che viene dagli anni ’80 e si sviluppa nei ’90 con un’ariosità orchestrale. Era tutto già dentro il brano prima che quest’ultimo si proiettasse al Festival. Era una canzone da Sanremo già in partenza per tutta una serie di coincidenze. Il pezzo è a 146bpm, è un pregio, ma anche un difetto. Perché dovrò cantarlo tutto io dall’inizio alla fine. Non avrò respiro, ma sarà divertente”.

Il tema è la libertà. O c’è di più?
“Quando parliamo di libertà sembra sempre che questa parola venga svilita a ideale da racconto. Più che libertà io vorrei idee e progettualità, capaci di andare alla velocità della luce. Perché non circolano idee in questo Paese? Questo ovviamente lo lego al tema della cultura, della musica e dell’intrattenimento per cui non sembra mai esserci una ripresa”.

È un problema anche culturale?
“Sì, in Italia l’occhio è rivolto al passato, questo forse anche per la sua storia e per il suo patrimonio. La musica per me può condurre verso nuove direzioni. Può indicare nuove strade”.

Come ti senti a essere uno dei pochi a portare il presente all’Ariston?
“In realtà negli anni ci sono stati diversi brani d’attualità a Sanremo. Certo, la percentuale di attualità e di sensazioni legate al contemporaneo, in generale nella musica italiana, è bassa. Il palco dell’Ariston rappresenta quella fotografia. Posso sottolineare un aspetto particolare?”.

Prego.
“Per me oggi forse è più difficile scrivere un testo d’amore libero e naturale, senza barriere. Il pezzo d’attualità si focalizza su un tema, per certi versi è più limitato”.

Tu hai sempre giocato un tuo campionato. Come sei finito a gareggiare all’Ariston?
“È vero, non sono competitivo. Però mi diverte il mondo delle scommesse che c’è dietro. Con i miei amici scherziamo molto sulle graduatorie. Il mio livello di competizione a Sanremo è pari a quello in una mano di scopone in treno per passare il tempo. Un gioco, un intrattenimento”.

Il Festival è sempre stato un tuo obiettivo?
“Periodicamente era già successo che mi dicessi: ‘dai, proviamo Sanremo’. È sempre stato un palco che avrei voluto calcare. Gli elementi di questo gioco non sono tanti in Italia: se si vuole fare qualche cosa di diverso, Sanremo è un’occasione”.

Hai letto le recensioni sul tuo brano dopo i primi ascolti della stampa?
“Me lo hanno vietato”.

È curioso il fatto che molti non riescano a incasellarti: dj, rapper, cantautore, produttore.
“Non riescono a incasellarmi perché forse se fossi stato in grado di fare una cosa bene, avrei fatto quella e ora riuscirebbero a definirmi. Evidentemente il mio passaggio da una dimensione all’altra è stato un mio modo di guardare oltre, di non fermarmi, ma può aver destabilizzato qualcuno”.

E se in realtà avessi seminato bene in ognuno dei mondi che hai toccato?
“Sei gentile, ma questa domanda, diciamocelo, è frutto della buona creanza dell’intervistatore”.

Per Sanremo 2021 sei stato fra gli autori di due brani: “Dieci” di Annalisa e “Chiamami per nome” di Fedez-Michielin. Hai mai pensato di fare solo l’autore?
“Il mio passaggio più netto all’autorato è dovuto alle contingenze dei nostri giorni. Nel momento in cui non ho potuto più fare la musica dal vivo naturalmente, ho cercato altro. Io ho sempre avuto il mio equilibrio: ogni tot facevo il mio dischetto e i miei concerti. Tutto questo scandiva la mia vita. Poi quell’equilibrio, con la pandemia, si è rotto. E quindi ho aperto la porticina della scrittura e dell’autorato, l’ho spalancata in realtà. Non ho fatto particolari carambole, l’ho aperta alla prima occasione”.

Che cosa significa per la tua carriera?
“Per me fare l’autore è mettere in moto un’area del cervello completamente diversa. Quando scrivi con più musicisti e con artisti che hanno tante idee, affronti un campo più fisico, più esplorativo. Quando invece si scrive per se stessi è più metafisico”.

In Italia c’è un problema con chi scrive canzoni per altri o il problema sorge quando a servirsi di collaboratori è Fedez? Perché la collaborazione fra te e lui, in certi ambienti, fa storcere il naso?
“In Italia c’è un problema con Fedez, questo è chiaro, ma paradossalmente è anche la sua forza. Se analizzato, alla fine, è un non problema. Io credo che tutto il polverone derivi dalla cultura artigianale e storica che abbiamo nel Paese: si è creata l’immagine dell’artigiano eroico che fa tutto da sé. Per l’Italia lavorare in gruppo sembra qualche cosa di consumista: chiami qualcuno a costruire la casa che vuoi, la fai con tutti i crismi, in team, ma questo non ne cambia la percezione, sembra ci sia un preconcetto. In America questo non è un problema. In America i pezzi hanno costellazioni di autori, ma questo non cambia il lavoro dell’artista principale. È lui che dà il peso vero alla canzone. Semplicemente chiama un idraulico o un falegname per creare la casa che ha in testa e la fa a norma, secondo le regole richieste dalla musica di oggi”.

E allora perché si sollevano queste polemiche?
“È un segno dei tempi. Il fatto che tutto questo discorso venga utilizzato per fare polemica la dice lunga. La polemica è l’ultima cosa che ci è rimasta”.

Se ci pensi anche in passato è successo: De André, per esempio, si serviva di tanti collaboratori sia sul fronte musicale che testuale. Lavorare in team, nella musica, non è una novità.
“Ma in quei tempi non c’era Instagram. Non tutti potevano dire la loro. Non c’era Genius che si mette ad affrontare per filo e per segno il testo e quindi a darne una lettura più ampia. Adesso quelli che lavorano nella discografia hanno i social, sono loro stessi dei personaggi al pari degli artisti. Puoi guardare dentro quel mondo e capirne alcuni passaggi che forse in passato erano più nascosti. E poi adesso l’invidia è comunicabile, la si può palesare”.

Perché hai scelto di portare il brano “La bambola” nella serata delle cover?
“La scelta della cover è nata per la fascinazione che provo per l’esecuzione di quel brano. Che non cercherò di imitare per evitare di distruggere quel pezzo e anche me. Mi interessa come quella canzone sia il racconto di un rapporto distorto fra due persone che si amano. In quel fine anni ’60 quella relazione malata viene descritta in modo quasi romanzato. Nel 2021, giustamente, quel tema invece è affrontato con meno fronzoli”.

Che cosa ti vuoi portare dietro da questa esperienza?
“Per me Sanremo in questo momento è importante per la ritualità del palco. I fonici, l’orchestra, la produzione, i rapporti con le persone: tutto quel mondo mi dà energia e attualmente è uno dei pochi palchi che come artisti abbiamo a disposizione”.