MUSICA




​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​
​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​
​​​​​​​​​​​​​​
​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​
​​​​​​​​​​​​​



​​​​​​​Parliamo dei nostri gusti musicali
​​​​​​​

​​​



MUSICA
Start a New Topic 
Author
Comment
Blanco: un primo disco con zero feat e tanta voglia di fare casino


Di Claudio Cabona

Alle corse con le macchine di lusso per le strade di Milano, preferisce quelle in mutande nei boschi di Calvagese della Riviera, paese di neanche 4mila anime, in provincia di Brescia. Se gli chiedono i suoi punti di riferimento cita Luigi Tenco, Gino Paoli e Celentano. Non si chiude nella gabbia di un genere, ma si approccia alla musica con diverse attitudini che vanno dal rap al rock creando un immaginario sporco e ribelle, sull'onda di una voce carnale.

Il suo primo disco in uscita oggi, “Blu Celeste”, è privo di feat. Una scelta controcorrente rispetto a quanto dettato dal mercato negli ultimi anni che, grazie alla bulimia delle collaborazioni, spesso studiate a tavolino e prive di senso artistico, ha puntato ad accrescere i numeri dello streaming. Un fenomeno che nel genere urban è diventato a tratti incontrollabile. Blanco, classe 2003, dopo essersi fatto conoscere a un vasto pubblico con brani come “Mi fai impazzire” con Sfera Ebbasta e “La canzone nostra” con Salmo, su produzione di Mace, fa tutto di testa sua, aiutato dalle produzioni del fidato Michelangelo.

Sul tema abbiamo chiesto un parere anche al suo discografico Jacopo Pesce. La corsa ai feat sta finendo? Che in questi anni si sia esagerato è evidente. Dopo l’intervista a Blanco potete leggere il punto di vista del direttore di Island Records che approfondisce la questione.

Blanco: l’intervista
Quella di non mettere feat è una scelta ben precisa.
“Sì, essendo un album molto personale, penso per esempio alla traccia principale ‘Blu Celeste’, non ne ho sentito la necessità. Anche sul fronte produttivo è tutto orchestrato da Michelangelo (solo “Figli di puttana” è co-prodotta insieme a Greg Willen, ndr). Con lui sono in totale sintonia. Quando definisco il progetto ‘personale’ è perché mi piacerebbe rimanesse tale, non voglio entrare nei dettagli. Vorrei che la gente lo facesse suo, lo portasse nel proprio immaginario”.

I feat stanno stufando?
“Sicuramente molti feat, in questi anni, sono stati fatti pensando agli streaming, ma conosco anche diversi artisti che stanno riscoprendo la necessità di esprimersi da soli. Io quando faccio un feat metto davanti a tutto il rapporto personale e la canzone. Non ho mai fatto nulla se non in nome della musica”.

I feat, in un disco così, avrebbero incrementato i numeri?
“Io mi do degli obiettivi, ma non ho aspettative. Io voglio fare musica, non mi interessa arrivare primo. Se si parte con un’idea così si rischia di dimenticare il perché del fare musica. E si realizzano dischi pieni di feat. Con questo non voglio dire che un artista che si circonda di feat non sia bravo, ma io ho preferito fare a mio modo. Il successo è una conseguenza, ma non può essere un punto di partenza”.

Dopo aver scritto alcuni brani di successo, sembra che non si possa più scendere dalla piramide. Senti delle pressioni?
“È vero, è l’aspetto più brutto della musica di oggi. Bisogna sempre e per forza stare al top, è una stortura. A me non frega un *****. Se una cosa non mi piace, non la faccio uscire, anche se ci sono pressioni. Un ragazzo che si fa influenzare, però, rischia il panico. Su un progetto musicale è importante non far decidere sempre agli altri. Nella musica di oggi cerca di decidere molta gente al posto tuo. Meglio sbagliare con le proprie mani piuttosto che con le mani di un altro”.

Chi è Blanco?
“Blanco è nato per incanalare le emozioni in modo positivo. La musica per me in fondo è questo: dare sfogo alle emozioni. Blanco è come se fosse il mio cognome: Riccardo e Blanco coesistono, non ci sono la persona e il personaggio. Sono la stessa cosa”.

Il ruolo della provincia?
“Io vengo da un paese piccolo. Ci si affeziona a quelle 4-5 persone e deve andarti bene così perché non ci sono tante alternative. Passando tanto tempo da solo, con poche situazioni per divertirti, inizi a fare anche azioni un po’ pazze tipo correre nudo nei boschi. Io l’ho sempre fatto”.

Ecco da dove arriva il tuo immaginario: dalla noia.
“È paradossale, ma è così. Ho sempre detto: ‘il posto in cui sono nato è maledetto’. Da ragazzino lo pensavo davvero. Vedevo i più grandi andare a fare serate nelle grandi città, io non avevo mezzi per muovermi. Poi con il tempo ho imparato ad apprezzare i luoghi di casa, la natura che li circonda. Milano è bellissima, ma quel caos non fa per me. La noia mi ha dato un grande stimolo, senza la noia non penso avrei iniziato a cantare. E non sarebbe nato Blanco”.

Come definiresti la tua musica?
“Non amo essere incasellato in un genere. A me piace dire ‘questa è musica, questa è una canzone’, non mi va di definire tutto attraverso termini come pop, punk e rap. Anche perché appena uno inizia a dire ‘questo per me è punk’ escono i puristi a rompere i coglioni e nascono le discussioni”.

Come vi siete conosciuti con Michelangelo?
“In uno studio a Milano due anni e mezzo fa, lui è di Cremona. Ha iniziato a mandarmi dei beat su WhatsApp, il rapporto è cresciuto nel tempo, in modo graduale”.

“Celeste” è un nome che hai tatuato sul corpo. Il brano “Blu Celeste” si fonda su un sentimento di privazione come se una persona a te cara non ci fosse più. È così?
“Preferirei non entrare nei dettagli. Mi interessa che la gente capisca il messaggio e lo faccia proprio”.

Perché la scelta del mare in copertina?
“Ho realizzato quegli scatti in Liguria. Un’esperienza meravigliosa. Nella cover sono sospeso dentro l’acqua, fra il fondale e la superficie. Il disco, per me, è sul fondo. È uscito, è stato lanciato e io sto già andando altrove. Ecco spiegata la frase ‘a peso morto nel mare’ contenuta nella traccia di apertura dell’album ‘Mezz’ora di sole’”.

Punti di riferimento?
“Amo il vecchio cantautorato. Battisti, Battiato, Lucio Dalla, Gino Paoli, Celentano, Luigi Tenco. Di Celentano me ne sono innamorato grazie alla mia famiglia, gli altri li ho scoperti e approfonditi io. Gino Paoli per me è il king del cantautorato. È molto diverso da me, ma sento che nella scrittura ci sono una poesia e un’italianità in cui mi riconosco. In quegli anni il cantautorato italiano era al top”.

Una canzone?
“Dico ‘Il cielo in una stanza’: è un capolavoro”.

Nel disco i sentimenti sono raccontati come se fossero dei vortici di parole e suoni. Ma tu in amore sei davvero così casinista?
“Due anni fa, quando avevo sedici anni, e ho scritto ‘Blu Celeste’, l’unica traccia così vecchia del disco, ero molto più istintivo. Ora sono un po’ più riflessivo. Io sono il campione dello sbattere contro i muri, per questo oggi dico ‘meglio prevenire che curare’. Gli errori servono a crescere”.

Il rutto nel brano “Pornografia (Bianco Paradiso)”?
“Non è mio. È di un amico di Michelangelo. Ha aperto la porta e ha tirato un rutto. Ci è piaciuto e lo abbiamo registrato”.

I live?
“Ho una voglia di fare casino…solo che adesso è tutto complicato. Portassi un disco così in uno spazio con posti a sedere, la gente probabilmente lancerebbe le sedie”.

C’è una nuova generazione che scalpita. Penso a te, Madame, Ariete, gli Psicologi e altri. Vi state prendendo con forza i vostri spazi rompendo dei tabù?
“Non c’ho mai pensato in realtà. Sì, è vero, io mi faccio vedere mentre corro in mutande, altri invece corrono in Lamborghini, ma non lo faccio pensando ‘adesso rompo dei tabù’. La musica va avanti e forse, senza premeditazione, qualche cosa in effetti stiamo cambiando. Io non giudico chi ostenta ricchezza, chi gira con i macchinoni: semplicemente non me ne frega un *****”.

Jacopo Pesce: la corsa ai feat è finita?
Il direttore di Island Records racconta perché “Blu Celeste” sin da subito, prendendo una direzione molto personale, non ha attirato o richiesto collaborazioni: “Blanco ha un talento abbastanza unico. Io e il mio team lo stiamo solo alimentando. Paolo Zanotti, il nostro A&R più giovane, l’ha portato alla mia attenzione quando aveva 16 anni caldeggiato da Stefano Clessi che aveva intrapreso con lui un gran lavoro artistico insieme al suo produttore Michelangelo. È stato un lavoro di team, ma il suo talento è davvero decisivo, Blanco ha solo 18 anni ma ragiona sulla sua musica con la testa di un veterano, è attentissimo a ogni sfumatura di ogni possibile azione. ‘Blu Celeste’ è un album molto personale, te ne accorgi dal primo ascolto, perciò non ci sono feat, perciò non c’è nemmeno ‘Mi fai impazzire’. Non c’è niente di strano, è molto probabile che si sia saturato il concetto opposto, e cioè dare per scontato che un disco debba essere infarcito di featuring”.

Poi una riflessione più ampia: “I feat, e quindi le collaborazioni, sono alla base della cultura urban, da sempre, non certo da oggi. Alla base della cultura urban c’è l’incontro, ma anche lo scontro, lo scambio di visioni in rime, la contaminazione di più mondi sonori magari. Quindi diciamo che il problema non è l’urban, che vive di scambio, piuttosto il problema è che ormai quando tra addetti ai lavori o tra artisti o tra producer si parla di un disco qualsiasi la prima domanda che ti fanno è “chi c’è dentro?”, quasi per misurare quanti numeri possa eventualmente generare illudendosi che basti quello. Questo per me è abbastanza preoccupante. La maggior parte delle strategie di comunicazione ormai è incentrata sull’annunciare chi c’è dentro un album, e credo sia un grande equivoco italiano, che porta oggi tanti assetati di numeri a concepire canzoni e dischi in funzione dei featuring. Mi è anche capitato di dover comunicare dei no a delle richieste di featuring ricevendo in cambio dei 'come no?'. Insomma un grande classico italiano, dove a un certo punto si comincia a dare tutto per scontato”.

Che l’annuncio e la ricerca spasmodica di feat, spesso, siano stati concepiti erroneamente come autostrade per il successo, è evidente. “Forse la situazione sta sfuggendo di mano e se poi si è esagerato, beh, secondo me lo si è fatto in generale, quando si è pensato superficialmente che unire due o tre artisti fosse un’addizione numerica più che una collaborazione, una presunta formula scorciatoia più che uno scambio artistico – conclude Pesce - un featuring ha senso quando aggiunge qualcosa a una canzone e la rende più preziosa, non quando punta a meri calcoli che poi, se forzati, non portano a nulla”.