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De Gregori, Settanta!

De Gregori, Settanta!
Tanti sono gli anni che il cantautore, poeta, aspirante cow-boy compie sotto il cielo del 4 di aprile
By Fulvio Abbate

De Gregori 70. Già, settanta come fosse un logo. Chissà perché, pensando al compleanno tondo di Francesco De Gregori, un anniversario che sentiamo un po’ anche nostro, torna in mente su tutto una magica pistola giocattolo dell’infanzia, l’infanzia comune a ogni baby boomer. Una rivoltella a tamburo, simile a una Colt, un’arma che prendeva il nome da una magica ideale fanciulla da tutti sognata, la “Susanna 70”, una pistola cesellata nelle guancette come si conviene al migliore dei cow-boy, all’occorrenza, abilitato a diventare un bounty killer, una ragazza comunque pronta a colpirti dritto al cuore.

Settanta, 70, tondi, centrati nel loro bersaglio. Tanti sono gli anni che il cantautore, poeta, aspirante cow-boy compie sotto il cielo del 4 di aprile, “… il più crudele dei mesi, che genera lillà dalla terra morta”, come promette il collega T. S. Eliot…

Si tratta forse della stessa pistola che impugna la cow-girl del calendario annuale della magica frontiera dell’West, lei che, seno e bianche frange generose in vista, ancora adesso ci guarda dall’azzurro, di più, dalla celestiale copertina di “Bufalo Bill”, così dall’anno 1976, pochi mesi ancora ed ecco le ultime fiammate di contestazione militante, e intanto “Alice” e “Rimmel”, semplici album di canzoni, lo mostravano in cima alla palizzate sentimentali della fama ormai raggiunta.

De Gregori 70, e nessuna retorica cerimoniale, De Gregori 70 come la già menzionata leggendaria “Susanna 70”, e incredibilmente sembra ieri che, accluso proprio a “Rimmel”, giungeva a tutti noi, ragazzi, i capelli ancora lunghi, il denim dei jeans e dei giubbotti a fare da seconda pelle, sempre a noi, allora acquirenti spasmodici di ellepì, giungeva il poster del giovane, del ragazzo, del coetaneo Francesco, faccina mite da pulcino biondo romano, monteverdino, l’aria docile e mite, e al collo la sciarpa gialla-nera-rossa del clan Mac Leod avuta in dono da un’amica, e magari anche il giaccone, montone rivoltato, l’abbigliamento proprio di quegli anni, per non prendere freddo tra tormente sentimentali e alluvioni politiche. La voce ormai matura, per tessitura e grana, direbbe il semiologo prestato all’osservazione musicale. Esatto, nei primi album, infatti, come nel caso del disco cosiddetto “della pecora”, ovino pasquale, l’“agnus dei” in copertina, la voce era invece inerme, dolce, perfino un po’ sommessa, così almeno in brani toccanti e straordinari come “Bene”, esatto: “… bene, se mi dici che ci sono anche dei fiori in questa storia sono tuoi”. Poi, proprio a partire dall’album segnato da quell’azzurro mariano, la nostra struggente cow-girl in copertina, l’inflessione prende un’andatura, un accento “californiano”, ossia più sincopato, come già Mina quando liberava le sue mille bolle blu. A proposito, sempre al ragazzo poeta De Gregori si imputava una tendenza manieristica, sì, un certo “ermetismo”, dove, in realtà, quella cifra, tra adolescenza persistente e intento letterario antiretorico, riusciva invece a salvare i versi di “Pablo” dalla possibile zavorra ideologica, se è vero che proprio lui, il Pablo della canzone, rendeva possibile fin dal suo nome sia l’elegia tout court sia ogni possibile lettura “politica”. Già, volendo, qualcuno, e non erano in pochi, attribuiva all’identità possibile di quel Pablo evocato, il volto e il poncho del “comunista” Pablo Neruda, così almeno nei giorni del golpe dei militari di Pinochet laggiù in Cile, “… hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo!” Per altri, invece, e il tempo ha dato loro ragione, Pablo sarebbe stato l’avvento d’ogni possibile amore…

Per dirne altre, ricordiamo tra le settanta candeline pronte anche “Viva l’Italia”, e ancora quando i neofascisti la utilizzarono in un loro spot elettorale, e De Gregori prontamente intimò loro il proprio “giù le mani”. A suo modo, De Gregori ci ha restituito anche il Natale, e la buona notte, con un valzer che ancora adesso risuona nelle gite scolastiche in pullman, e idealmente combatte un possibile primato dell’intelligenza melodica con “La canzone del sole” del collega Lucio Battisti. Così tra tornando e in vista di una non meno ideale spiaggia.

La passione per Bob Dylan, dichiarata, anzi, se non ricordiamo male, proprio De Gregori in un’intervista raccontava di averlo incontrato durante un concerto romano, e di avergli consegnato una cassetta con le sue canzoni, aggiungendo però, maestro d’autoironia, “… non credo che gli abbia cambiato la vita”.

Nel palmarès della vita privata, il nostro può vantare una compagna quarantennale, Chicca, che lui chiama “Capo”, e due figli, Marco e Federico, anche loro talvolta con aspetto da bounty-killer e lunghe doverose basette, a loro volta pronti a rendere omaggio all’immagine paradigmatica della copertina di “Bufalo Bill”.

Il tempo, la carriera, le canzoni, i capelli smarriti cammin facendo, l’incanto intatto della voce, il ricordo dei colleghi-compagni di strada, Dalla e De Gregori e tutti gli altri ancora, perduti nell’oro della pace di una interminabile domenica, per dirla con Pasolini, e la sciarpa del clan Mac Leod ancora lì, intatta, nel cassetto, il tempo segna ora il numero 70, nell’azzurro sempre immacolato del proprio Natale tondo che dice addio all’infanzia.