MUSICA




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Sanremo, quando Bruce Springsteen non volle Pippo Baudo sul palco


Tra la fine degli anni Settanta e quella dei Novanta il palco del Teatro Ariston, durante le annuali edizioni del Festival di Sanremo, ospitò alcune delle più grandi star musicali di sempre. Da Elton John ai Depeche Mode, passando per Blur, Oasis, David Bowie, Dire Straits, Kiss, Queen, Duran Duran, U2, Page & Plant, R.E.M. e Lenny Kravitz, solo per citare i più noti, l’elenco dei big - veri, big: qui, qui e qui i filmati delle loro esibizioni - chiamate a fare da intermezzo al concorso canoro più popolare presso il pubblico italiano è sterminata. Eppure il passaggio in Riviera, per i grandi artisti stranieri, non sempre è stato lineare: a parte la plateale provocazione dei Placebo - e quella, molto più ironica e raffinata, dei Blur - in tanti, oltre i nostri confini, ricordano la propria esibizione al Festival della Canzone Italiana come un’esperienza per lo meno complessa.

Una ricca analisi della presenza straniera all’Ariston è stata condotta dal giornalista, scrittore e autore - oggi Direttore Comunicazione della RAI - Marcello Giannotti nel libro “Sanremo: fermate quel festival!” del 1998 (277 pagine, Tarab Edizioni). Sul perché si siano verificate diverse incomprensioni tra le star e l’entourage sanremese Giannotti ha le idee particolarmente chiare:


Il problema, in realtà, è molto semplice: dal punto di vista internazionale, il Festival di Sanremo è in posizione di grande debolezza e per convincere le vere grandi star straniere occorre pregarle e pagarle. (...) Gli artisti internazionali, quando arrivano a Sanremo, sanno a malapena cos’è il Festival: il più delle volte sono consapevoli della grande attenzione che esso ha in Italia ma rimangono del tutto estranei alle tensioni e all’atmosfera del festival. Spesso le grandi star vengono catapultate in un ambiente disorganizzato e burocratico come quello del festival, diverse volte con l’organizzatore, creano dei veri e propri casi. Inoltre le bizze della star straniere mal si conciliano con la confusione che regna sovrana a Sanremo e che porta gli organizzatori e la stampa a trattare uno che ha venduto milioni di copie alla stessa stregua di un novello, nipote magari di qualche importante discografico.

Il primo grande malinteso tra un artista internazionale e la “macchina” del Festival ebbe luogo addirittura nel 1968, l’anno successivo la tragica scomparsa di Luigi Tenco, e con un musicista non invitato come ospite, ma come - quando ancora il regolamento lo permettava, fino al 1970 - concorrente in gara: Louis Armstrong.

Il grande jazzista fu convinto a cantare a Sanremo, in coppia con Lara Saint-Paul, un brano di Bertero Vallaroni e Buonassisi, il celebre gastronomo. La canzone, intitolata “Mi va di cantare”, non era nulla di eccezionale, un motivetto orecchiabile, con un testo semplice semplice: perché mai il grande Satchmo aveva accettato? Semplice, perché il suo manager gli aveva mentito, assicurando il vecchio musicista che si sarebbe trattato di un concerto a Sanremo dove, in omaggio all’Italia, avrebbe cantato anche una canzone italiana. Dunque, come racconta lo stesso Pippo Baudo, presentatore di quell’edizione (in “La mia TV: 40 anni di televisione italiana”, ed. La Stampa), “il povero Satchmo, dopo aver esordito con questa musichetta, afferrò la tromba e cominciò a intonare i suoi blues. Dietro le quinte ci fu il panico: il regolamento non lo permetteva. ‘Baudo, fallo smettere. Fallo smettere subito’. Ebbene sì, lo ammetto. Io che avrei voluto inginocchiarmi davanti a Satchmo, sono stato quell’uomo che agitando un fazzoletto bianco, gli tolse la tromba di bocca e lo trascinò fuori dal palcoscenico”. (...) Quello che convinse gli organizzatori a dire di no all’esibizione di uno dei più straordinari musicisti del mondo fu quel regolamento: nessun cantante in gara aveva il diritto di cantare più a lungo di un altro, Armstrong o non Armstrong. E nessuno degli organizzatori, peraltro, si scusò minimamente con il grande trombettista.

Passano gli anni e si arriva al 1996. L’allora direttore artistico e presentatore Pippo Baudo - essendo da poco stata pubblicata la raccolta con inediti dei Fab Four “Anthology” - sogna di portare all’Ariston i tre Beatles superstiti, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr, ma da oltremanica arriva solo la disponibilità da parte del cantante e bassista di un passaggio veloce - e non musicale - per presentare il video del singolo in promozione “Real Love”. Baudo, fermamente convinto che l’ospite straniero debba esibirsi e non limitarsi alla passerella, rifiuta e riesce comunque ad assicurarsi la presenza di Bruce Springsteen, che qualche mese prima - a novembre - aveva spedito sui mercati il suo album acustico “The Ghost of Tom Joad”. Lo staff del Boss, un po’ per eccesso di zelo, un po’ perché - probabilmente - al corrente del clima che si respirava a Sanremo, crea intorno all’artista un vero e proprio cordone sanitario che lo isola da tutto e tutti.

Baudo (...) riesce a far arrivare Bruce Springsteen al Teatro Ariston: la partecipazione provoca panico tra i fan italiani del Boss che non vorrebbero vedere ridotto Bruce a canticchiare tra lustrini e pettegolezzi del festival. Springsteen arriva a Sanremo, unica apparizione televisiva in Europa per promuovere il suo nuovo album: e, tanto per fare capire che aria tira, detta le sue condizioni che Baudo è costretto ad accettare. Niente interviste, niente lustrini, niente clamori: canterà la sua ‘The Ghost of Tom Joad’ con sottotitoli in italiano all’inizio della serata, solo sul palco con la sua chitarra acustica e l’armonica. Di interviste non se ne parla, anzi: Springsteen chiede e ottiene che Baudo lo presenti dalla platea, per evitare ogni eventuale battuta. La stessa situazione si ripete l’anno successivo quando al festival arriva David Bowie: il Duca Bianco si esibisce a inizio festival evitando di scambiare parole con il presentatore Mike Bongiorno.