MUSICA




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Tiziano Ferro, l'intervista: “Durante il lockdown mi sono imposto di essere creativo”


"Parlare di soluzioni, non di problemi". Tiziano Ferro non è stato fermo, nell'ultimo anno: è in lockdown a Los Angeles dalla primavere, con il marito Victor e i suoi cani, ma la sua soluzione è la musica. Ha terminato un documentario, “Ferro”, che esce venerdì 6 novembre assieme a "Accetto miracoli: l'esperienza degli altri", un album nuovo di zecca, fatto di cover incise durante la pandemia.
Il documentario sul cantante di Latina doveva essere pubblicato in estate, in contemporanea con il tour, poi è stato posticipato - ma la storia non è cambiata: raccontare un suo lato privato, la lotta con le dipendenze. L'album non era invece previsto: durante questo periodo si è rinchiuso in studio per dare alla musica anche in questo frangente il ruolo che ha sempre avuto nella sua vita: la via di uscita da periodi bui.
Abbiamo raggiunto Tiziano Ferro via Zoom a Los Angeles: abbiamo parlato del film, di chi lo accusa usare il privato per fare promzione, delle cover, del tour e della musica che gli ha cambiato la vita, compresa quella degli Smiths. Sì, Tiziano Ferro è un fan di Morrissey, ma non si sente pronto a incidere una sua canzone… Anche se una sera l'ha incontrato a Los Angeles in un negozio di dischi...

Partiamo da “Ferro”, un film sorprendente, nel senso letterale: chi si aspetta un documentario autocelebrativo o musicale rimarrà sorpreso. Come hai deciso di raccontare questa storia?
Ho sempre voluto esplorare un linguaggio diverso dal mio. Stavo pensando ad un libro, quando è arrivata la proposta di questo documentario: il linguaggio delle piattaforme video è quello dell’attualità. Per me era importante non fare un documentario di matrice musicale, di quello che abbiamo già visto. La storia passa sicuramente dalla musica, è la protagonista orizzontale, c’è sempre stata. Ma verticalmente volevo raccontare dei capitoli: la mia versione della spiritualità, della famiglia, del mio rapporto con le origini e la mia città. E avevo bisogno di raccontare il mio rapporto controverso con il peso, con il cibo e con le dipendenze. È stata un’esperienza rivelatoria: l’idea principale era parlare di soluzioni, non di problemi.


Il film è stato annunciato ormai un anno fa, e doveva concludersi con il tour. Il progetto e la storia sono stati ripensati a seguito del lockdown?
In realtà no. L’ultimo giorno di riprese fu quello del 21 febbraio, quello in cui venne dichiarato il primo caso di Covid. Il documentario sarebbe dovuto uscire a giugno, poi l’abbiamo posticipato. Ma doveva raccontare da settembre dell’anno scorso al disco, a Sanremo al compleanno dei miei 40 anni. È una storia che è rimasta inalterata da quello che è successo poi. Per me rappresenta esattamente la linea di demarcazione tra il vecchio mondo e il nuovo.

Nel film spieghi la tua scelta di raccontare il tuo privato e la tua dipendenza dall’alcol. Così come in altri momenti della tua carriera, c’è chi ti ha accusato di usare queste storie per fare promozione.
L’essere bravo - ammesso che lo sia - e famoso non sono tematiche particolarmente stimolanti, almeno per me. Io penso che ci sia una sorta di obbligo morale, da parte di chi ha la possibilità di farlo, di alzare la voce e mettersi a disposizione di un dialogo. 
Quando feci coming out, scrissi un libro e feci un’anticipazione, ma nessuna intervista, scegliendo il 2010 perché era un anno in cui non avrei pubblicato musica. Questo documentario doveva uscire a giugno, a prescindere da dischi in uscita. In questo sì, la pandemia ha cambiato le cose: mi sono rinchiuso in studio, ho inciso le cover e sono diventate un disco. Nel documentario non c’è musica, c’è solo una canzone: è stata una scelta precisa.

Uno dei momenti che colpisce di più del film è quando parli dei tuoi discografici e dell'impatto su di te delle loro manipolazioni. Pensi che la discografia fosse, o sia, un ambiente in cui la salute mentale degli artisti non viene presa in considerazione?
La risposta è si, ma il problema non era la discografia, ero io. Loro mi chiedevano di essere qualcosa che non ero, ma io non sapevo chi ero: questo era il problema più grande. Quando l’ho capito, l’ho imposto alla discografia e al mondo, nella serenità e nella gioia di essere chi sono. 
Il problema è che a 20 anni non sai chi sei, a maggior ragione quando tutti continuano a chiedertelo con una telecamera in mano. Essere ventenne e famoso non aiuta la salute mentale degli artisti: in quel periodo la discografia mi trovava aperto a subire quelle manipolazioni. C’è gente che a 50 non sa ancora chi è: io ho avuto la fortuna di capirlo un po’ prima e di imporlo a chi mi stava attorno.

Qualche tempo fa hai parlato di come lo streaming abbia cambiato le regole del gioco, falsando la percezione di un album. Cos’è per te oggi un album?
Rimane romanticamente molto importante: è un concetto, un viaggio. Chiaro che i singoli funzionano di più perché lo streaming è orientato ad un pubblico più giovane. Se avessero conteggiato tutte le volte che da ragazzo ho ascoltato “Messa di vespiri” degli Articolo 31 o "Lorenzo 1994"… 
È altrettanto chiaro che è un po’ strano conteggiare in quel modo le singole canzoni nelle classifiche degli album. È diverso l’impegno di una persona nell’ascoltare un’opera da quello di ascoltare uno o due brani. Negli anni ’90 e negli anni 2000 se andavi primo in classifica nei singoli e negli album eri fortissimo. Ma un artista da album non è un artista da singoli.

“L’esperienza degli altri” è un disco di brani altrui in un periodo in cui c’è diffidenza verso le cover. Quelle recenti di tuoi colleghi per il progetto “I Love my radio” sono state molto criticate, almeno in alcune bolle dei social.
Tutto è nato a Sanremo e mi chiedevano spesso se avrei inciso e pubblicato le canzoni che cantavo. Poi a marzo mi chiama Linus, mi parla del progetto delle radio, e io nell’entusiasmo incido “Bella d’estate”. Solo che quando gliela mando, lui mi dice che non è nella lista. Vedo che c’è “Perdere l’amore”, che avevo fatto a Sanremo con Ranieri: lo chiamo e gli chiedo quest’ultimo favore di inciderla.

Ma lì la scintilla è scoccata: in quel periodo di lockdown ho deciso che per divertimento mi sarei lanciato in questa cosa, chiudendomi in studio. A fine luglio avevo una decina di canzoni, le ho fatte sentire al mio manager, Fabrizio Giannini, e gli ho proposto di farne un album, visto che un po’ di piani erano saltati. Ne abbiamo parlato con Universal, l’abbiamo regolamentato visto che non era previsto dal contratto. È stato un elemento di sfogo: in quel periodo mi sono imposto di diventare creativo.

Le versioni hanno sonorità e arrangiamenti molto diversi tra loro. Come mai?
Un disco di cover ti permette di uscire fuori da ogni regola. Non devi pensare alla scrittura, i brani sono quelli, hanno caratteristiche chiare, che li hanno resi grandi successi. Non hai lo stress di pensare se la canzone verrà capita. L’arrangiamento diventa un divertimento: sei libero, puoi giocare con i suoni e con il canto. Non è importante che l’album appartenga ad un genere: puoi mettere assieme Modugno, Califano, Giuni Russo e Scialpi. È un jukebox.



De Gregori, quando ha inciso le canzoni di Dylan, ha parlato di amore e furto. Per te, nelle cover, ci vuole più amore e rispetto o più furto e tradimento dell’originale?
Poco furto: un senso di colpa di base c’è sempre, è molto italiana questa idea dei mostri sacri intoccabili. Credo invece che sia importante toccarli, per far ascoltare di nuovo certe canzoni. Lo dico con un po’ di sana presunzione: quand’è l’ultima volta che in radio abbiamo ascoltato “Rimmel” in alta programmazione? Non so se è un merito, ma so che ci saranno dei giovani che l’hanno scoperta così. 
Ho 40 anni, se faccio questo mestiere è grazie a questi artisti e a queste canzoni. Ho trattato queste canzoni con rispetto, come se fossero opere di maestri di musica classica.

Porterai queste canzoni in tour quando sarà il momento?
La domanda più difficile di tutte. “Tour” è la parola più astratta di tutte in questo momento. Però sì, ci sarà qualcosa di questo disco, che sta già diventando importante.

Cosa è rimasto fuori?
Il file sul mio computer “disco cover” esiste da 15 anni e la lista andava rimpinguandosi. Alcune canzoni non mi venivano, si sono autoeliminate. Altre sono entrate per diritto insindacabile, come “Margherita”. Ci sono state esclusioni perché non sono riuscito a trovare una quadra, come Battisti: troppe canzoni, troppe idee. Ho inciso una versione quasi jazz di “Je so’ pazzo” di Pino Daniele, ma non ero contento del mio napoletano - però quando ho postato il video delle prove sui social persino la figlia mi ha fatto i complimenti e lì sono un po’ pentito. Manca Dalla, che però ha scritto il testo di “Bella d’estate”, quindi diciamo che l’ho incluso comunque.

Hai pensato di incidere anche canzoni in inglese?
Ho una paranoia, che è quella della lingua: devi essere credibile, e per quanto ti impegni c’è sempre il rischio che suoni posticcio. Poi ho già cantato in inglese, è bello, una lingua di una musicalità infinita, e se ci saranno occasioni lo rifarò. Ma faccio fatica a pensarci.

So che hai una passione per gli Smiths e Morrissey.
Quando vivevo a Roma, scoprii che viveva nella mia zona e andavo in giro sperando di incontrarlo. Poi ho vissuto a Manchester, e tra i colpevoli di quella scelta c’erano lui e gli Smiths, ma anche lì non l’ho mai incontrato. Una sera, non molto tempo fa, viene a Los Angeles una mia amica e mi chiede di portarla in un posto non turistico. Così andiamo da Amoeba, lo storico ed enorme negozio di dischi. Facciamo un giro e compro il nuovo disco di Morrissey, appena uscito. Vado a pagarlo e la cassiera mi dice: “lo sai che lui è lì dietro che sta guardando dei dischi?”. Mi giro, lo vedo che scorreva dei vinili. Non ho avuto né il coraggio né la voglia di disturbarlo. Ma dopo averlo inseguito per anni l’ho finalmente trovato una sera in un negozio di dischi vuoto…

Qual è il disco che ti ha cambiato la vita?
Recentemente stavo facendo un tuffo nella discografia di Samuele Bersani, e ho pensato quanto mi ha influenzato, quanto poco lo nomino, e quanto poco viene celebrato: sono grato ad artisti come lui. Uno dei primi dischi che ho ascoltato da mio padre è “Il nostro caro Angelo” di Battisti, che non è il suo più famoso. Ma mi ricordo il viaggio mentale che mi faceva fare: non capivo le parole, non c’erano i ritornelli. Mi chiedevo chi era, se parlava con una persona o con un angelo… Quando ero piccolino andavo in giro con mia madre, e quando qualcuno mi chiedeva come mi chiamavo, rispondevo “Angelo”.