Jeff Buckley e Shakespeare, un matrimonio che s'aveva da fare
In scena Romeo e Giulietta con le canzoni del cantautore
di Simona Orlando
Nell’appartamento di Jeff Buckley c’era il letto sfatto, nessun mobile, il pavimento coperto di vestiti, amplificatori, opere di Rimbaud, Kerouac, Whitman, Neruda, Rilke, Omero, pile di classici. Amava la letteratura, se ne nutriva, e anche se i suoi testi non sono considerati formalmente poesie, poetico era lo stato a cui sapeva portare l’ascoltatore. Il cantautore statunitense è una delle scoperte più appaganti dagli anni ‘90 a oggi, al punto che definirlo tale è riduttivo, quasi offensivo. Dotato di una voce che dà vertigine, compositore, chitarrista e performer di qualità, improvvisatore, capace di cimentarsi in cover fino a superare i brani originali (vedi l’“Hallelujah” di Leonard Cohen). Lui - per di più bellissimo - con rabbia e grazia poteva guidare il pubblico ai vertici dell’estasi e lasciarlo cadere nelle cavità più profonde, eppure, negli intervalli del concerto, riusciva a intrattenerlo con intelligente ironia.
Un solo disco, “Grace”, e il mondo del rock cadde ai suoi piedi. Lo venerò, lo imitò, lo tenne nascosto come un segreto. Apprezzava il suo talento e la sua attitudine verso il mercato discografico, quell’onestà verso la musica che lo rendeva schivo al successo, antidivo. Un’esistenza lacerata dalla morte del padre Tim Buckley, grande cantautore morto per un mix di eroina e alcol, che quasi non conobbe ma al quale somigliava in modo spaventoso.
Un’esistenza lacerata e tuttavia ostinatamente normale, non dedita agli eccessi ma solo alla sua arte, che viveva come totalizzante. Buckley è ormai un canone della musica leggera, ricco di identità, distinguibile e irripetibile, quasi un codice genetico del genere, come fu William Shakespeare in letteratura. Non è un paragone, ovvio, ma l’avvicinamento che ha tentato il regista newyorkese Michael Kimmel nel musical intitolato “The last goodbye”, che debutta oggi al Williamstown Theater Festival. Non ha resistito alla tentazione (o all’intuizione) di far incontrare i due sul palco. Buckley in cuffia, Romeo e Giulietta alla mano, ha presto scoperto che le canzoni dell’uno si adattavano ai versi dell’altro. Così “Forget her” è finita a descrivere l’infatuazione iniziale di Romeo per Rosalina, “Morning theft” accompagna l’invito dei Capuleti a Paride di prendere in moglie Giulietta, “Grace” è cantata da Romeo prima del suicidio, “The last goodbye” sigilla l’atto finale. E via così per venti canzoni, in un dialogo tra “fiele che strangola e dolcezza che sana” che era caro ad entrambi.
Per timore che la combinazione provocasse insostenibile tristezza nel pubblico, la produzione del musical ha delegato spesso il canto ad un ensemble, così da distribuire il peso ed alleggerire gli animi, altrove però, soprattutto nei monologhi, la voce resta a ergersi solitaria. Ad incarnare in scena Romeo-Jeff c’è Damon Daunno, attore e musicista di origine italiana, Kelli Barrett interpreta Gulietta, le coreografie sono di Sonya Tayeh (nota per il lavoro al programma “So you think you can dance”).
Inizialmente Mary Guibert, la madre di Jeff, ultraprotettiva sull’utilizzo del suo nome, colei che ha finora evitato di svenderlo in jingle pubblicitari e lo ha preservato da speculazioni varie, si era mostrata scettica. Da quando è morto, a soli trent’anni, non fa nulla che non avrebbe fatto suo figlio. Tantomeno aveva voglia di ascoltare le sue canzoni in una trama che termina col suicidio, visto che ha dovuto combattere non poco contro insinuazioni simili sul conto di Jeff. Sarebbe infatti piaciuto ai molti appassionati di storie maledette inserirlo nel calendario dei santi suicidi del rock, invece si trattò di un incidente: annegò nelle acque del Wolf River, sobrio, senza stupefacenti in corpo, di buon umore, mentre nuotava a dorso canticchiando “Whole lotta love” dei Led Zeppelin. E questa è la tragedia nella tragedia (ma c’è anche la storia d’amore nella storia d’amore poiché i due protagonisti del musical si sono fidanzati durante le prove), questo è il destino beffardo che accomuna i protagonisti, gioia violenta e violenta fine.
In seguito la Guibert si è ricordata di un Jeff adolescente che girava per casa con una copia di “Romeo e Giulietta” sottobraccio, ha capito che attraverso i secoli Shakespeare e suo figlio avevano trattato la stessa complessa relazione fra amore e morte, e si è convinta ad incoraggiare il progetto. Il risultato è uno show costato 300.000 dollari, già sold out, e richiesto ovunque.
Ci era riuscito “West side story” nel 1957 a trasportare la vicenda scespiriana tra le strade di New York, dove la coppia era osteggiata da bande rivali e dove erano le musiche di Leonard Bernstein a scuotere. E ancora nel 1996 l’azzardata impresa toccò, risultando vincente, al “Romeo+Giulietta” di Baz Luhrmann che manteneva il testo originale ma si sviluppava in un ambiente contemporaneo (“Exit” fu appositamente scritta per il film dai Radiohead, i quali, guarda caso, devono molto a Buckley).
Stavolta però le musiche non sono composte per l’opera, preesistono, sono opere di per sé, e per funzionare insieme a un sacro testo del teatro dovranno sciogliersi al contatto, in una soluzione alchemica. Altrimenti, non c’è niente di più facile che rovinare due bellezze mischiandole.