MUSICA




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Rolling Stones a Cuba: quando la musica fa la Storia


Esce in sala il 10 aprile il documentario di Paul Dugdale The Rolling Stones Olè Olè Olè, che racconta l'ultimo, emozionante tour della band inglese in Sudamerica

Il 25 marzo 2016, i Rolling Stones hanno suonato, gratis, per la prima volta all’Avana, Cuba. Il primo concerto rock nella storia dell’isola, lo spettacolo più grande mai realizzato lì. Un fan sotto al palco dice «è un’overdose di libertà», e non c’è definizione più vera. Una data storica, dunque, un’emozione unica per chi fino a pochi anni prima veniva arrestato se sorpreso ad ascoltare una canzone per strada, e oggi si trova a ballare e cantare a squarciagola (I can’t get no) Satisfaction con Mick Jagger e soci. «Fino a poco tempo sarebbe stato impensabile essere qui, vuol dire che qualcosa sta cambiando», urla Jagger dal palco. E, a giudicare dalla quantità di telefonini che lo riprendono, la rivoluzione è già in atto.


Il concerto di Cuba è stato il culmine di un lungo tour che ha portato gli Stones a esibirsi in tutto il Sudamerica, dall’Argentina al Perù, dalla Colombia all’Uruguay: nove concerti in altrettanti Paesi a loro familiari, più uno che mai avevano conosciuto prima e che fino all’ultimo è rimasto un’incognita. Il dietro le quinte di questa affascinante tournée, la complessa – a volte rocambolesca – organizzazione della tappa di Cuba sono al centro del documentario di Paul Dugdale Olè Olè Olè – Viaggio in America Latina, presentato all’undicesima Festa del cinema di Roma e in sala per un solo giorno il 10 aprile (QUI l’elenco delle sale). Un film ricco di spunti interessanti, musicali ma anche storici, politici e culturali, costruito tutto sull’attesa – solo in alcuni tratti un po’ estenuante – dell’esplosivo, inedito finale.

«Nessuno vede il mondo come i Rolling Stones», dice Keith Richards all’inizio del film. I quattro componenti della band inglese vivono come degli esploratori, pronti a scoprire ogni volta qualcosa di nuovo. Come Cuba nel 2016. Arrivarci non è stato facile. Nessuno aveva mai organizzato uno spettacolo di quelle dimensioni all’Avana e gli imprevisti erano all’ordine al giorno. Uno su tutti? Far slittare lo show perché il presidente degli Stati Uniti Barack Obama aveva annunciato la sua visita al Paese proprio il giorno dopo la data prevista inizialmente (il commento di Mike Jagger al telefono è esilarante: «Sono ottant’anni che un presidente americano manca da Cuba e decide di venire proprio il giorno dopo il nostro concerto?»).

Amati e venerati in tutto il Sudamerica, soprattutto in Argentina, dove vige addirittura una cultura urbana «rolinga», gli Stones portano con sé, tra i fan, tutta la loro intramontabile e invidiabile energia. «La folla sotto al palco salta e balla e per noi è impossibile non accompagnarla: ogni sera scopriamo muscoli che non sapevamo di avere», dichiarano gli arzilli settantenni.


La forza del documentario sta nel mettere insieme diversi aspetti: lo spaccato di realtà e cultura sudamericana (che passa anche dall’apertura al rock dopo anni di regime e «proibizionismo musicale»), il rapporto speciale che lega oggi più di prima i quattro membri della band, in special modo Mick Jagger e Keith Richards. Richards, che a un certo punto si vede anche piangere sul palco («non ci si abitua mai, ogni volta è come toccare il paradiso»), racconta così la loro amicizia: «Battibecchiamo spesso ma siamo legati nel profondo, in un modo che è difficile spiegare. Conoscerci è stata la nostra fortuna più grande».

Non è un caso se tra i ritratti privati presenti nel documentario, il più bello è senz’altro quello in cui i due intonano da soli chitarra e voce Hony Tonk Woman nei camerini del palco. La potenza degli Stones è tutta lì. E dà i brividi.